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 Anno IV n° 7 LUGLIO 2008    -   PRIMA PAGINA


Lo sbuffo
Sono io! ...Ma lei è proprio sicuro?
Due aneddoti sul problema “identità”
Di Giovanni Gelmini


Maroni ha sollevato una bufera con la schedatura dei bambini Rom. Vorrei provare a ragionare, non sul provvedimento degli Ministro del Interni, ma su un problema vero e che non ha nulla a che vedere con il razzismo.

Se permettete, partiamo da due mie esperienze dirette.

Nel 1998 prestavo servizio di leva presso l’Ospedale Militare di Verona e , come Aiutante di Sanità, lavoravo presso il reparto di Radiologia. Il mio compito, al mattino, era effettuare l’accettazione nel reparto, cioè dovevo procedere alla compilazione della cartella clinica: rilevare i dati della richiesta di esami fatta dal medico del reparto e completarla con l’anamnesi del paziente e, se l’esame era effettuato per la medicina legale (invalidità, ricorsi contro lo Stato, patenti pubbliche come per i paracadutisti, riforma dal servizio di leva, ecc), dovevo anche procedere all’ identificazione della persona in modo certo, assumendomene la responsabilità con una firma in un riquadro apposito.

Voi forse non potete sapere come non sempre l’identificazione fosse facile; troppo spesso i documenti che mi presentavano non permettevano un’identificazione certa, ma un caso mi si è stampato nella mente.

Si presenta un ragazzotto grande e grosso, con la barba. ha 18 anni e deve fare un esame per essere scartato dal servizio militare, uno di quei casi in cui dovevamo fare mille attenzioni, perché la truffa era sempre in agguato.
Apro la carta di identità e ci vedo un bel bambino con la faccia paffuta, guance glabre e con i capelli corti. Si sfugge un: “ohh, ma sei tu?”
“Si – risponde il ragazzo- la carta di identità l’ho fatta a 14 anni... poi sono cresciuto”
“Vedo... ma come faccio a riconoscerti, quello che vedo qui non corrisponde più a te”
“Si è vero, ha già avuto problemi di questo tipo; ho chiesto in comune, ma mi hanno detto che la ‘carta’ non me la possono rifare fino a quando non scade”
“Già, ma qui come faccio io...”
A questo punto interviene un carabiniere che è in attesa di fare il suo esame: “Ma se il documento è valido lei lo deve riconoscere!”

Lo guardo storto e, piccato, rispondo: “Firmi tu il riconoscimento? Ti predi tu la responsabilità di certificare che è veramente lui che fa l’esame e non suo fratello maggiore o suo cugino? E se poi c’è qualcosa che non va ci vai tu a Peschiera (N.d.R. dove sono le dure carceri militari)?”

Il carabiniere zittì arrossendo, ma questo è a tutt’oggi un problema reale: le foto sono un riconoscimento incerto, specialmente per i bambini e gli adolescenti. Ma non solo per loro

Un anno prima, fine settembre, mi era successo di trovarmi dall’altra parte.
Finito uno spettacolo di Dario Fo e Franca Rame, stavamo tornando a casa da Milano. La mia ragazza era alla guida della sua cinquecento bianca e io sedevo a fianco.
Era circa mezzanotte quando si arriva al casello di Agrate: un solo casello aperto. c’è un posto di blocco con poliziotti armati fino ai denti. Guardano all’interno dell’auto e ci fanno cenno di spostarci nell’area a fianco per un controllo più accurato.
Cosa sarà mai?
Documenti alla mano... la mia ragazza ha dei lunghissimi capelli, che mi fanno impazzire, ma sulla carta di identità ha una foto con il taglio della capigliatura a maschietto. Il poliziotto rileva immediatamente la differenza. Lei cerca di convincerlo, raccoglie i capelli con le mani, ma lui nulla è irremovibile e fa spostare la macchina in un punto da cui non saremmo potuti ripartire facilmente senza il loro benestare. Mi accorgo che c’è sempre un poliziotto che ci controlla arma in pugno, mentre tutte le altre auto passano tranquillamente.

Il tempo passa e ci preoccupiamo, perché proprio noi? Cosa abbiamo mai fatto di cosi grave? Dopo quasi un’ora un poliziotto si avvicina al finestrino, ci rende i documenti e ci dice che possiamo andare.
Non aspettiamo un attimo di più, tante sarebbero le domande, ma meglio allontanarsi nel tempo minore possiebile: acceso il motore e la “Carolina”, così si chiamava l’auto, parte sicura verso casa nostra. Ed in questo caso non eravamo adolescenti, entrambi sui 24 anni.

Cosa era successo? L’ho scoperto proprio l’anno successivo all’Ospedale Militare, parlando con un carabiniere.
Era un carabiniere con un fortissimo esaurimento nervoso, preso proprio per i continui posti di blocco fatti per controllare il banditismo in Sardegna. Lo stavo accompagnando a casa in licenza di convalescenza e così durante il viaggio, si parla dei posti di blocco; gli ho raccontato la mia disavventura e lui mi ha spiegato che tutto traeva origine dalla sanguinosa rapina fatta dalla banda Cavallero a Milano il 25 settembre 1967 alla filiale del Banco di Napoli a Milano. Si ricordava bene che stavano cercando una donna con i capelli lunghi e neri, come quelli della mia ragazza. Così ci hanno fermato fino a quando non hanno avuto riscontro dalla sicuro centrale, dovevano essere certi che eravamo veramente noi; se appena appena ci fosse stato un dubbio ci avrebbero fermati e... menomale che le informazioni ricevute sono state convincenti, altrimenti...

Il poter dimostrare la propria identità in modo certo è un fatto che non ha nulla a che vedere con le indagini criminali, con la “schedatura” di polizia, ma è un’esigenza di cui non ci si rende conto fino a quando non si incappa appunto in situazioni imbarazzanti; allora di desidera invece ardentemente avere un mezzo per dimostrare la propria identità.

Il polverone sollevato dalle disposizioni di Maroni sull’identificazione dei Rom è un problema esclusivamente ideologico: da una parte perché ha avuto un colore razzista, la raccolta delle impronte era limitata ai “cattivi” Rom, dall’altra perché la gente identifica la raccolta delle impronte digitali con una forma di criminalizzazione. Con queste due visioni il fatto assume una caratterizzazione evidentemente negativa, ma credo invece che sia molto opportuna che le impronte siano prese a tutti, come sembra sarà.

Sono per le cose certe, purché siano fatte bene, il problema della privacy mia, e credo della stragrande maggioranza degli italiani, è più concentrato sul difendermi dalle telefonate inopportune del call-center, che dal dubbio che i fatti miei interessino qualcuno che non sia della famiglia.

Per completare il ragionamento, posso ricordare che le impronte digitali sono giù state raccolte alla maggior parte degli italiani maschi in occasione della visita militare e questo non ha creato alcun problema. Vi sono sicuramente cose più delicate delle impronte digitali, cose che invece possono essere facilmente colte da estranei e di cui dovremmo preoccuparci di più che non un mezzo per poter dire se siamo noi o no.



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