Ogni tanto mi accorgo che la gente, credendo di non darlo a vedere, mi guarda con occhio altezzoso, con un po’ di derisione e perfino di compatimento per il mio vivere pigro. Senza auto veloci, senza telefono, senza ansia di consensi. Ma in fondo io non me ne curo; chiunque venga qui da me lo fa per assecondare un suo capriccio e sa che solo io in paese ho la risposta alle sue richieste.
Ricacciate pure indietro tutte le ipotesi eccitanti e le congetture fantasiose che la mente ha iniziato a suggerirvi alla lettura di queste parole. Avete di fronte a voi semplicemente Venerando, lo speziale, titolare della più fornita drogheria del paese.
Ci sarà qualcuno tra voi che magari si ricorderà di uno di questi negozietti, locali piccoli, o meglio che appaiono tali per la sovrabbondanza di mercanzie, alcune delle quali accatastate seguendo una disposizione casuale, altre rigorosamente ordinate secondo uno schema che solo il titolare conosce e che sfugge agli avventori. Quei posti dove si entra cercando i lacci delle scarpe, la canfora, i fiori di zucchero per decorare i dolci pasquali, gli occhiali da presbite, il merluzzo dissalato con l’acqua del pozzo, l’olio di frantoio estratto a freddo ed altre cose che mai trovereste in uno di quei grandi ed asettici supermercati moderni.
Da me si trova di tutto, ma ad una sola condizione: quella di non avere fretta.
I miei clienti lo sanno ed è per questo che vengono qui. A ciascuno di loro sarà dedicato il tempo.
Sono le dieci, il negozio è ancora chiuso e mi attardo un po’ dietro la porta. Mi arrivano delle voci, un chiacchiericcio familiare: la signora Amalia sta chiacchierando col ragioniere Mezzi.
L’uomo racconta delle rinunce a cui la vita l’ha costretto.
– Signora cara, sapesse quanto mi è costato rinunciare allo sport. Ero un discreto atleta. Collezionavo vittorie una dopo l’altra. Avrei avuto sicuramente una brillante carriera se non fosse stato per quella bronchite che mi fiaccò il fisico. E poi, dovetti abbandonare anche gli studi!
Mentre tolgo i chiavistelli dall’interno ascolto e sorrido. Veramente non è andata proprio così.
Era magro, anzi gracile di costituzione e sempre malaticcio, al punto che, nelle adunate settimanali, lo mettevano agli ultimi posti spiegando che era per via dell’altezza e che in tal modo non avrebbe nascosto gli altri bambini. Neppure il fatto che suo padre fosse il potestà riuscì a corrompere la cieca fede nella prestanza fisica dell’istruttore che gli suggerì, con una certa insistenza, di restare a casa. Ci avrebbe pensato lui a trovare una giustificazione.
Ed anche per gli studi la faccenda si svolse diversamente. Il padre l’aveva mandato a studiare economia e commercio. Gli aveva trovato in affitto nel capoluogo un appartamentino, con una bella finestra spaziosa che illuminava la scrivania. Ed il poveretto riusciva perfino ad immaginare il suo figliolo con la testa china sui libri. Ed il giovane Mezzi non lo deludeva. Nel senso che, con una certa periodicità, gli comunicava di aver sostenuto degli esami.
Finalmente un giorno, rispondendo alle pressanti domande paterne, disse che si sarebbe laureato il diciotto di Giugno. L’avvocato Mezzi e Signora furono allora presi da giusto orgoglio e da una comprensibile frenesia nell’invitare i parenti stretti e qualche amico con i quali dividere la felicità dell’evento. La signora, che non aveva figlie femmine da sposare, volle a tutti i costi ordinare le bomboniere a testimoniare il raggiungimento di una meta tanto agognata per il figlio, gracile, ma tanto tanto intelligente.
Furono visti tornare a sera, quel diciotto giugno, un poco mesti. Per la precisione la Signora era mesta, l’Avvocato Mezzi, già di per sé rubizzo, era a dir poco cianotico. Ad un passo dallo schiattare per infarto.
Si seppe, da certe malelingue, che genitori e parenti avevano aspettato tutta la mattinata nel bel salone dell’ateneo che venisse il turno del candidato Egidio Mezzi.
Ma invano.
L’avvocato, da uomo pragmatico, si era recato subito presso la segreteria chiedendo spiegazioni. Per poco non fu colto da malore quando gli dissero, con tutta la gentilezza e la pietà che il caso richiedeva, che il signor Egidio Mezzi aveva sostenuto solo tre esami del primo anno.
Adesso è la volta della signora Amalia di lamentarsi della sua triste vita, particolarmente triste da quando è rimasta vedova. Ci tiene molto a puntualizzare la sua vedovanza, lo fa ogni volta che viene presentata a qualcuno che non lo sappia già. E non è casuale che le sue precisazioni diventino più esaurienti qualora l’interlocutore sia uomo benestante e, soprattutto, celibe.
– Sì, caro ragioniere. Mi lasciò giovanissima, nel fiore degli anni. Come dice? Le sembra che non sia passato molto tempo? Troppo buono…che vuole… cerco di non abbandonarmi alla disperazione. La vita deve pur continuare, anche se con questo dolore sul cuore.
Ci sono sempre diversi modi di intendere una stessa verità. Anche nella storia della signora Amalia, vedova Ripetta, mi ricordo qualche particolare leggermente differente. Forse siamo rimasti io e pochi altri a conoscere tutti i dettagli della storia del paese e dei suoi abitanti. Molti si sono trasferiti altrove e alcuni si sono stabiliti qui da poco.
Il Cavaliere Ripetta aveva già ottant'anni quando sposò la ventenne signorina Amalia. Diceva di averla accolta in casa in quanto orfana e di aver deciso di sposarla per tutelare la sua reputazione. La giovane lo aveva accudito devotamente, con il massimo delle premure, al punto che non lo svegliava mai quando rientrava, a giorno quasi fatto, da quel localino sulla collina dove intratteneva gli ospiti ballando. Dopo la morte del marito, la responsabilità ed il peso piuttosto considerevole dell’eredità le avevano imposto di consegnarsi ad una vita più tranquilla. E da quel momento in poi la sua principale occupazione era stata quella di costruirsi una nuova rispettabilità.
Finalmente mi decido ad aprire la porta del negozio ed il suono della la campanella fissata in alto sullo stipite sembra avvisare, come a teatro, che lo spettacolo ha inizio. Un’altra giornata durante la quale mi divertirò nel ruolo di capocomico.
Ed ecco il breve atto unico, dopo mesi di prove:
– Buongiorno signori, accomodatevi.
Signora Amalia, lei sembra ringiovanire ogni giorno che passa, sarà per via della sua vita virtuosa e sobria. E lei caro ragioniere, sempre scattante, da fare invidia a tanti giovani. Ma si sa, mente e fisico bene allenati sono una cosa sola.
Posso consigliarle di comperare questa partita di semola, è ottima per il cous-cous col pesce e le mandorle, oppure quello con le carni e le verdure all’ebraica… se solo volesse vincere il suo impedimento per il cucinare!
Adesso tocca al ragioniere continuare, ma lo devo imbeccare così tonto com’è.
– Mi chiedo come possa sopravvivere senza una donna che si occupi di lei!
Finalmente il suo occhio piuttosto vacuo sembra animarsi, al punto che mi pare di ricevere un cenno d’intesa, e le sue parole sembrano confermare la mia impressione.
– Lo sa bene, Venerando, che sono negato per la cucina, magari se ci fosse qualcuno che mi desse dei suggerimenti, sa come si fa con i bambini, standomi da presso, sorvegliando le mie azioni. Magari potrei anche imparare. Ma dove la trovo una persona così paziente? Immagino che lei signora Amalia sappia invece cucinare benissimo.
Ed ecco che, con perfetto tempismo e presenza scenica, interviene la signora Amalia:
– Se vuole potrei darle la ricetta, gliela ripeterò dettagliatamente. Pensa di ricordarla?
In verità è un poco lunga ed in questi casi sarebbe utile vedere le fasi della preparazione, sentire i vari odori. Ma sì certo, potrei cucinarlo io e lei potrebbe venire per tempo in modo da assistere e, potrebbe lei stesso provare.
Ecco fatto, che fatica che mi hanno fatto fare questi due!
E tutto per dire: – A casa mia o da te?
Ma le maschere, si sa, rendono difficile la comunicazione.
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