La ragazza
La donna se ne stava affacciata alla finestra, con il capo sul davanzale, sporgendo le braccia penzoloni nel vuoto. Sembrava una di quelle marionette di un teatrino per bambini nei giardini pubblici, che sono sempre abbandonate in avanti sul bordo del piccolo palcoscenico di cartapesta.
La palazzina era l’ultima della strada, una strada polverosa di un paese di campagna nell’entroterra napoletano. Subito dopo cominciavano i campi, radure piuttosto, con erba rada e ingiallita sotto il sole d’estate, campi adibiti a pascolo più che a coltivazioni. Due o tre mucche infatti si aggiravano lente, tra un nugolo di vespe e di tafani. La scena metteva sete solo a guardarla, ma la stenta fontana accanto alla casa non invogliava.
Guardai ancora la donna e capii finalmente il perché della sua posizione: stava asciugando i lunghi capelli castani, muovendoli ogni tanto con le mani e passandovi attraverso con le dita. Quando si sollevò all’indietro scoprendo il viso, vidi che era bellissima. Un viso sottile, uno sguardo intenso e una larga bocca senza trucco, dischiusa e sensuale anche vista così da lontano…Poi fu un attimo. Lo sparo echeggiò nel silenzio del pomeriggio e dapprima non capii neppure che si trattasse di uno sparo.
Mi voltai e non riuscii a vedere altro che la bicicletta che svoltava l’angolo, il fanalino posteriore rotto e una schiena azzurra che fuggiva via con il capo chino in avanti sul manubrio. Non avrei potuto dire neppure se si trattasse di un uomo o di una donna.
Sollevai lo sguardo alla finestra e per un attimo sembrò che niente fosse cambiato. La ragazza era ancora là, col capo sul davanzale, i lunghi capelli che pendevano al di fuori e un braccio bianco lungo il quale però un filo rosso scorreva e si ingrossava sempre più, lasciando sgocciolare il sangue tra le dita.
La vecchia
Il canto della vecchia sembrava un lamento continuo e lugubre.
La sera era scesa in fretta e il suo vestito viola si confondeva con le prime ombre. Il silenzio intorno era totale, solo il suo canto-lamento. “Cinque gocce di sangue rappreso, un pizzico di polvere di sale, una bacca selvatica e una goccia di liquore odoroso di limoni”.
Ferma in mezzo alla strada, in ginocchio, china su quelle macchie scure, la sua voce diventava sempre più stridula. La prima stella si affacciava nel cielo ancora blu ed io sentivo crescere un vento di tempesta.
La vecchia strega si rialzò e cominciò la sua danza battendo forte i piedi su quella strada, intorno a quelle macchie. La sua lunga gonna strisciante sollevava polvere, le sue mani disegnavano cerchi nell’aria, il vento cresceva, la luna saliva. I il mio sguardo riusciva a stento a penetrare il buio.
Chiusi gli occhi un momento, mi giunse da lontano un lento brontolio. Poi di nuovo il silenzio.
Riaprii gli occhi, un improvviso lampo illuminò la facciata del vecchio palazzo. Le finestre erano spalancate e vuote, solo una tenda sdrucita svolazzava agitata da quel vento di bufera, sbattendo sui muri stinti , attorcigliandosi come un fantasma che si contorce.
Della vecchia, nemmeno l’ombra. Nell’aria ancora l’eco delle sue parole”Cinque gocce di sangue rappreso…”
L'uomo di città
I colori dell’alba, dietro la collina, avevano assunto sfumature arancioni, il brusio del risveglio riguardava solo lo sgocciolio della vecchia fontana, il canto del gallo e il primo abbaiare dei cani. Anche la campana aveva già fatto sentire la sua voce.
Non erano voci di città quelle. Se lo disse anche l’uomo appena sceso dalla corriera , che si guardava intorno con aria spaesata, alla ricerca di un essere umano cui chiedere un’informazione. Nella piccola piazza, il deserto.
L’uomo guardò l’orologio, poi mi vide, mi rivolse una breve occhiata di sfuggita e continuò a guardarsi intorno e a sbirciare l’orologio.
Il tempo sembrava non avere una grande importanza in quel posto. Tutto era muto, immobile, come pietrificato. Il sole cominciava a salire e finalmente apriva i battenti scuri l’unico bar dalla insegna sbiadita.
Nonostante il rumore dei cardini e un leggero movimento all’interno, nessuna voce umana.
L’uomo di città entrò. Avrebbe voluto un caffè, ma sapeva che la macchina non era ancora pronta, così si accontentò di un bicchiere di latte freddo e una brioche di quelle confezionate che sembrava essere lì sullo scaffale da tempo immemorabile.
La donna che lo servì aveva un’età compresa tra i trenta e i cinquant’anni, difficile da stabilire, il locale era freddo e umido, ma, nonostante fosse mattina presto, offriva un riparo contro il caldo che già montava in quella estate torrida, che non dava pace. “Mi saprebbe indicare dove vive la famiglia Porretta?”-chiese finalmente l’uomo, dopo aver pagato la sua consumazione.
La donna strinse gli occhi, poi li chinò sul bancone, intenta a passarvi su uno straccio bagnato e rispose con l’inconfondibile accento strascicato, tipico del luogo: “Io qua non conosco nessuno. Sono di ‘fuori’”.
Il cane
La piazzetta era piena di gente, fatto insolito per un pomeriggio assolato d’estate, in un giorno qualunque.
C’era anche il sindaco, con uno sguardo di circostanza, i familiari erano muti e affranti, la madre aveva un volto di pietra , rigido e segnato dal tempo, con gli occhi asciutti e la fronte corrugata.
Il prete scese le scale della chiesa, impartì la sua benedizione e la gente si avviò. Lo scalpiccìo dei passi era l’unico rumore, neppure un pianto. Anche un cane pezzato seguiva il gruppo lentamente, con la coda bassa.
Poi dal fondo della via, un uomo, poco più che un ragazzo, si avvicinò quasi correndo. Nel silenzio si udiva il suo ansimare e giunto accanto agli altri i suoi singhiozzi trovarono sfogo.
La madre si voltò, gli posò un braccio sulla spalla e proseguirono il cammino abbracciati. Qualcuno bisbigliò: “ E’ l’innamorato”e la gente scuoteva il capo compassionevole.
Il cane intanto cominciò ad abbaiare. Una ragazzina lo zittì: “Ssss…Lillo, tornatene a casa”. Ma il cane continuò ad andare avanti e indietro, abbaiando furiosamente.
Tutto ciò disturbava la mesta cerimonia e il dolore dei presenti.
Poi la bestia riuscì ad intrufolarsi nel mucchio e cominciò ad agitarsi sempre più, fino a quando, raggiunto il nuovo arrivato, gli addentò un polpaccio senza mollare la presa, nonostante le urla del giovane.
Erano tutti sbalorditi e qualcuno cercò di intervenire e di allontanare il cane che continuava a tenere la presa. Alla fine alcuni ragazzi riuscirono a staccarlo e a legarlo con una fune al lampione della strada.
Il corteo riprese, ma il cane continuò ad abbaiare fino a quando tutti non ebbero svoltato l’angolo.
Avevo seguito la scena con stupore, come tutti. L’uomo morso dal cane continuò a camminare zoppicando, ma la madre non era più accanto a lui. Lo guardava di sbieco, i suoi occhi mandavano lampi. Intorno all’uomo s’era fatto il vuoto e nonostante arrancasse vistosamente, nessuno gli porse il braccio.
L'uomo dell'agenda
Io sono qui, io sono alla finestra, sono alla scrivania, sono in auto.
Penso e ricordo.
Ho visto,ho registrato, ho creduto di capire e aspetto di sapere.
Io sono l’uomo dell’agenda, quello che osserva, quello che ascolta,quello che annota.
Oggi sono qui, domani in un altro posto, dove posso, dove capita. In un angolo qualunque di mondo, in mezzo alla gente.
Quella che vedo non è sempre brava gente. Io vado. Con la mia agenda e i miei perché.
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