Un'altra persona si è sucidata per “paura di perdere il lavoro” a Torino, già qualche settimana fa un lavoratore, che era stato lasciato a casa, si era dato fuoco a Bergamo. È solo colpa della crisi?
Senza entrare nel merito dei singoli casi, queste due morti ci impongono di riflettere sulla nostra società. È possibile che la perdita del posto di lavoro si trasformi in una tragedia così grande da imporre il suicidio?
Sicuramente nei casi specifici ci saranno delle concause che hanno reso insostenibile la perdita del lavoro, ma è indubbio che una grave colpa è nel modo in cui concepiamo il nostro ruolo in questa società fatta di luci abbaglianti e ombre tragiche, spesso vissute in solitudine.
Ci hanno fatto credere di dover essere sempre “in”, cioè essere sempre in possesso di cose che ci qualificano agli occhi degli altri; di dover fare le vacanze speciali, vestire firmato, vedere i film appena usciti, altrimenti non siamo nessuno. Questa può essere una causa. Inoltre possono esserci: l'impegno della casa, che costa molto più di quello che vale perché gli speculatori alzano i prezzi degli immobili, i figli, la (o le mogli), ecc. Così per conquistare uno stipendio un poco più alto spesso si fa di tutto e ci si sottopone a una vita impossibile. Il mutuo, per avere una sicurezza di una casa in proprietà e non pagare affitti esorbitanti, ci mangia una bella fetta di stipendio, e allora... straordinari o secondo lavoro. Così però diventiamo super stressati e necessitiamo di vacanze “speciali”, non solo, anche periodi di relax in centri benessere durante la settimana.
Quel plus di stipendio, che prendiamo, se ne va per “mantenerci in forma” per lavorare ancora e non impazzire. Una situazione che ci configura come novelli schiavi del lavoro, ma in questo caso non si vede lo schiavista, perché siamo noi che ci schiavizziamo.
Alla fine del '700 e all'inizio del '800 è nata la parola “proletario”. Questa indicava chi non era contadino, e quindi con una capacità di sopravvivenza legata alla terra produttiva, o artigiano, con la capacità di produrre beni con i propri attrezzi e le proprie capacità tecniche, o benestante, che poteva vivere con le proprie rendite. Queste categorie avevano, secondo il pensiero di allora, capacità proprie di produrre il necessario per vivere. L'operaio dell'opificio invece vendeva le proprie braccia in cambio di un salario e la ricchezza della sua famiglia era data del numero dei figli che, andando a lavorare, potevano portare a casa “reddito”. La ricchezza era data dalla prole, appunto, e da qui la parola proletario.
La preoccupazione di chi si occupava di società allora non era tanto “lo sfruttamento” da parte del capitalista, ma era la vulnerabilità dei proletari, che perdendo il lavoro perdevano la possibilità di sopravvivenza. Per superare questo si crearono le “Società di Mutuo Soccorso”, la Chiesa si attivò per dar vita a organizzazioni di carità verso i più poveri, ma la più importante “garanzia” per i proletari fu la famiglia, quella famiglia allargata che oggi non abbiamo più.
Oggi siamo individualisti, senza capacità di aiutare il prossimo e, spesso, senza capacità di accettare gli aiuti. Il nostro orgoglio (o la nostra stupidità) ci impedisce di ammettere una situazione di difficoltà e allora la perdita del lavoro diventa una tragedia insopportabile.
Possiamo dare colpa di questo ai datori di lavoro? Si, ma solo se pensiamo che sia anche loro la colpa di crederci “eroi invincibili”, che possono vivere da soli nella loro corazza splendente.
Questo credo sia il vero problema della nostra società
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