Visto dalla prospettiva dell’industria il famoso dilemma se la scuola debba servire per preparare la persona o il lavoratore non esiste: la scuola deve essere lo strumento attraverso il quale le imprese si riforniscono di personale qualificato. Con maggiore o minore rudezza (ciascuno di noi ha sentito il mugugno di qualche piccolo imprenditore che brontolava contro una scuola che non gli forniva operai “pronto uso”, per cui doveva provvedere a sue spese a qualificarli- e questo lo sentiva come un’ingiustizia) o con la raffinatezza di un Rocca, che segnala la necessità di aumentare il numero dei laureati tecnici,(in particolare degli ingegneri nel contesto di una politica industriale volta a mantenere competitività con l’innovazione tecnologica) questo nesso strumentale è sempre evidente.
E, diciamolo pure controcorrente, va bene così. Va bene così, perché in una società che esprime una pluralità di interessi, ciascuno ha il compito di far conoscere e di promuovere i propri, nel mentre spetta alla politica quella sintesi, non necessariamente quella mediazione, che si ritiene utile per affrontare in termini dinamici i problemi che la complessità della società stessa propone di continuo.
Ripercorrendo ed ipersemplificando gli indirizzi della formazione al lavoro nel dopoguerra, in Italia si possono distinguere tre periodi diversi, nei quali il rapporto scuola- lavoro è stato diversamente interpretato.
Nel primo, terminato negli anni ’50, la scelta tra la continuazione agli studi o l’avviamento al lavoro avveniva al termine delle elementari ed era irreversibile.
Nel secondo, la scelta veniva effettuata dopo la scuola media unificata con modeste possibilità di mobilità tra i due tronconi; un elemento di elasticità, intervenuto (vado a memoria) attorno al 1970, è costituto dalla possibilità per i diplomati tecnici di adire a qualsiasi facoltà universitaria, per cui abbiamo visto, ad esempio, periti industriali laurearsi in giurisprudenza – pochi, ovviamente – creando figure professionali atipiche, ma di un certo interesse da parte delle aziende. Mi soffermo su questi aspetti di mobilità e di figure intermedie (non lo sono anche gli ingegneri gestionali, che combinano nel loro corso di studi elementi di ingegneria con i fondamenti della gestione economica delle aziende?) per sottolineare come l’industria abbia sempre ben visto e premiato le “contaminazioni” piuttosto che i percorsi classici.
Siamo ora all’ora zero del terzo periodo, quello della riforma Moratti. Lasciamo stare i giudizi di tipo generale, lasciamo stare l’impreparazione al nuovo da parte del mondo della scuola: cerchiamo solo di capire come il sistema in cui è articolata la scuola – il decreto attuativo sulla scuola secondaria è di qualche settimana fa - viene giudicato dall’industria. Una prima valutazione l’ha fatta Gianfelice Rocca, che in Confindustria ha la delega per l’education. Giudizio largamente positivo: va bene portare a 18 anni il ciclo di studi, è importante la valorizzazione della formazione professionale, ottima l’alternanza scuola – lavoro, bene la formazione professionale superiore, benvenuta la nascita dei licei tecnologici e di quelli economici. Tutto bene, allora? Sì, ma. I licei tecnologici “debbono rappresentare la continuità e l’evoluzione della grande tradizione dell’istruzione tecnica, da cui le imprese hanno attinto per anni tecnici preparati e provenienti da un percorso formativo vicino al mondo industriale”. Sono parole di Rocca e quel “vicino” mi sembra un po’ maliziosetto…
Cambiare tutto per non cambiare niente? Onestamente non mi sembra: Rocca stesso sottolinea la necessità di basare l’apprendimento nei laboratori e con attività sperimentali, proponendo le aziende per esperienze concrete di familiarizzazione con gli ambienti del lavoro, di concentrare la didattica su materie tecnico- scientifiche. Il problema, per gli imprenditori, quindi si trasferisce sulla qualità, e quindi sulle risorse, che verranno dedicate alla modernizzazione delle strutture. Auguri. Auguri sinceri, anche se molto scettici…
C’è un ultimo punto che andrebbe valutato: c’è una grande enfasi da parte degli imprenditori sulle attese da parte del territorio di una formazione mirata: Mirata a cosa? All’industria che c’è, ovviamente. Sarebbe meglio pensare all’industria che non c’è e che vorremmo avere.
Argomenti correlati: #confindustria, #formazione, #industria, #innovazione, #lavoro, #politica, #scuola, #specializzazione, #tecnologia
Tutto il materiale pubblicato è coperto da ©CopyRight vietata riproduzione
anche parziale
Il sito utilizza cockies solo a fini statistici, non per profilazione. Parti terze potrebero usare cockeis di profilazione
|