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Ancora sulla morte di Calipari

Le dichiarazioni di Scelli e la lettera di Rosa Calipari rilanciano i dubbi

Cosa c’è di giusto nell’ingoiare i colpi bassi dei nostri stessi alleati, oltraggiando con l’indifferenza e con l’ipocrisia la morte di un uomo giusto?

Di Concetta Bonini

Giovedì 25 Agosto 2005, quando ancora l’Italia sonnecchia in vacanza, il giornalista Guido Ruotolo riporta sulla Stampa un’intervista a Maurizio Scelli, commissario uscente della Croce Rossa Italiana: una dichiarazione a sorpresa che ha l’effetto di un fulmine a ciel sereno con tanto di tuono che scuote Palazzo Chigi dalle fondamenta, una dichiarazione che riguarda i retroscena nella gestione dei rapimenti in Iraq da parte dell’Italia, che vede coinvolti tanto Scelli quanto Nicola Calipari e Gianni Letta.

Scelli si sofferma sulla liberazione di Simona Pari e Simona Torretta e rivela: la liberazione ha avuto un prezzo che non è stato pagato in denaro ma in cure mediche e le condizioni per il rilascio prevedevano in particolare la cura da parte della Croce Rossa di quattro terroristi feriti in combattimento e ricercati dagli americani, oltre al ricovero in Italia di bambini iracheni malati di leucemia. Altra condizione irrinunciabile per garantire l’incolumità degli ostaggi era il silenzio con gli Usa sulle trattative. Ed è proprio così che ha agito la Cri, di nascosto dagli Americani, per riportare a casa le due Simone così come Agliana, Stefio e Cupertino, forse anche la Sgrena, e per ritrovare i corpi di Quattrocchi e Baldoni. Il tutto con lo sta bene di Letta.

Ed è subito scandalo.

Scandalo per la trattativa con i terroristi, scandalo per le ombre che cadono sul rapporto tra Palazzo Chigi e la Casa Bianca.

Ma in America fanno i Ponzio Pilato e rispediscono la patata bollente a saltare tra mani tutte italiane. Perché in fondo E’ una questione tutta italiana. E per quanto si invochi l’indipendenza di azione nazionale ed internazionale della Cri, è chiaro che almeno il governo, Letta ed il Sismi ci sono dentro fino al collo.

Ma in realtà ci chiediamo semplicemente che razza di scandalo sia poi questo, che scoop ha lanciato mai la Stampa, cosa che già non si sapesse o –quantomeno- non si sospettasse.

L’Italia ha trattato con i terroristi e lo ha fatto attraverso Maurizio Scelli che, grazie alla mediazione dell’amico medico iracheno Nawar, arrivava direttamente al Consiglio degli Ulema della cui stima godeva pienamente. E –almeno allora- Scelli non era certo una scheggia impazzita ma piuttosto una pedina abilmente mossa che, al contrario di uomini altrettanto validi come Nicola Calipari, non era al servizio né del governo né dei servizi segreti e poteva perciò agire con estrema libertà. E non ci sconvolgeremo di certo sapendo che il nostro Paese è sceso a patti e condizioni con i terroristi. Questo era chiaro e risaputo da tempo, è stato sussurrato, è stato per metà confessato, ma era una realtà già apertamente tradita dai fatti, se non altro da tutti gli ostaggi che sono tornati a Roma sani e salvi. E poi, gli aerei che arrivavano con i malati iracheni a bordo non erano certo invisibili. È ovvio che abbiamo fatto una scelta molto precisa: quella di trattare. Al contrario degli americani. Ed è altrettanto ovvio che si tratta di una scelta oltremodo opinabile, ma di questo si discute in altra sede. Sta di fatto solo ed esclusivamente che questa scelta l’abbiamo fatta e ora non possiamo che assumercene le responsabilità, tanto più che nessuno avrebbe mai osato biasimare una trattativa quando le due Simone e tutti gli altri si davano già per giustiziati. Ora è facile parlare, ancora più facile per chi non ha passato in balia dei terroristi tutte le ore che ci hanno passato Scelli e Calipari. Costretti per di più al silenzio con i loro principali alleati, godendo in questo di un appoggio che Letta oggi improvvisamente rinnega.

Ma anche in questo, cosa c’è di scandaloso? Scelli era fuori dagli organi governativi, poteva permettersi libertà di movimento e questo allora ha fatto molto comodo. Se avesse agito con le spalle coperte dagli americani, delle due Simone e degli altri, forse di Scelli stesso, probabilmente non avremmo ritrovato nemmeno le ossa. Chiunque in quelle condizioni avrebbe avuto la precisa consapevolezza che l’operazione necessitava della massima riservatezza. Ed è ridicolo che oggi da Palazzo Chigi ci si affretti a negare di averla mai accordata. Cosa avrebbe dovuto fare Scelli, mentre Calipari aveva le mani legate: mandare una nota ufficiale per informare la Casa Bianca e –perché no- invitare uno stuolo di giornalisti di tutto il mondo all’incontro con i boia che trattenevano gli ostaggi?

Nulla delle dichiarazioni di Scelli ci scompone più di tanto. Lo scandalo vero che ha acceso con la sua infelice uscita giornalistica probabilmente non è altro che la punta d’iceberg di una guerra sotterranea che si gioca con Berlusconi, che non lo vuole più come asso nella manica della sua imminente campagna elettorale, e con Letta che, dopo averlo portato al vertice della Cri, non vede l’ora di scaricarlo in vista delle elezioni per la presidenza che si terranno a dicembre dopo decenni di commissariamento. E Scelli, che si sente già licenziato, ha bisogno di farsi vedere, di farsi ascoltare, di fare rumore. Di ricordare al governo, in sostanza, che un uomo che sa troppo ci mette poco a diventare scomodo, tanto più se si tratta di un uomo ambizioso che ama stare sotto i riflettori e “rilasciare dichiarazioni vanagloriose” , come scrive Sergio Romano sul Corriere.

Niente di nuovo sotto il sole. Perché per il resto le dichiarazioni di Scelli sono uno scandalo solo per pochi, solo per chi ha dimenticato che l’unica volta in cui uscirono fuori troppe informazioni sulle trattative, in Italia ritornò solo la bara con il corpo di Calipari sfondato dalle pallottole del “fuoco amico”. Ma queste sono solo supposizioni. Nessuna indagine ce lo rivelerà mai, tanto meno nessuna indagine condotta congiuntamente con gli americani ovvero con coloro che stavolta –e non solo stavolta- sono i colpevoli, volontari o involontari. Colpevoli che agiscono, che fanno di tutto per occultare le prove delle loro azioni e che si impegnano nel loro migliore ostruzionismo affinché nessun altro riporti alla luce ciò che loro hanno prontamente e debitamente insabbiato.

“Non è possibile avere pace se non c’è giustizia” , dice Rosa Calipari in una lettera all’Unità il 31 Agosto, la lettera di una donna che ancora non conosce rassegnazione. Ma cosa c’è di giusto nell’ingoiare i colpi bassi dei nostri stessi alleati, oltraggiando con l’indifferenza e con l’ipocrisia la morte di un uomo giusto, adagiandosi solo nella retorica che farà dimenticare il reale paradosso che ha imposto questo sacrificio, come può esserci giustizia in una enorme disgustosa bugia?

Perché la verità –questo è certo- noi non la sapremo mai.

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