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 Anno I n° 11 del 24/11/2005    -   PRIMA PAGINA



Donne al potere!
Dal parlamento ai consigli d’amministrazione, la presenza femminile in Italia è ridotta ai minimi termini, ma le quote rosa possono davvero essere la soluzione?
Di Concetta Bonini


Donne al potere? Troppe, direbbero sicuramente gli uomini. Poche, diciamo noi, troppo poche.
Lo hanno scritto nei manifesti delle piazze affollate, lo hanno scritto nei loro libri densi di ideali, di valori, di speranze rivendicative, lo hanno scritto e lo hanno urlato sempre le femministe di ogni tempo e di ogni luogo, appassionate, determinate, vigorose, vitali, esuberanti, brillanti. Semplicemente: donne. Invasate talvolta, ma donne. Non che la loro –la nostra- complessità si esaurisca in questo, ma certo sono anche questo le donne.
E lo scrivono ancora, lo urlano ancora. Lo vogliono ancora.
Ma lo scrivono, lo urlano, lo vogliono nella giusta maniera?
Che la moderazione non sia appartenuta mai – o quasi mai – al femminismo, è risaputo.
Ma oggi è ancora il tempo di quelle magnifiche manifestazioni di piazza tutte al femminile, di quei fiumi calorosi di donne che si uniscono e lottano, è ancora il tempo di quelle romantiche battaglie, di quegli energici assedi alla società che le donne pretendevano, e pretendono ancora, di dipingere di rosa? No, chiaramente no. Ma c’è differenza, onestamente, tra queste strategie e le barricate parlamentari di Stefania Prestigiacomo, c’è differenza tra queste lotte e le quote rosa? Allora, così come la storia deve necessariamente superare sé stessa, le donne devono superare sé stesse.
Di un rinnovamento in senso femminile –e non femminista- la nostra società ha inequivocabilmente bisogno. Lo rivelano innanzitutto le statistiche sulla presenza delle donne nelle alte sfere politiche e societarie.
In tutto il globo le donne Capo di Stato sono soltanto 9, ovvero il 4,8% del totale, mentre quelle Capo di Governo sono 3, ovvero l’1,8% del totale: per un pelo si sarebbero potute contare sulla punta delle dita delle mani di un sono essere umano. E si tratta di paesi quasi sempre di scarsa importanza sullo scacchiere internazionale. In questo quadro paesi come l’Irlanda, la Finlandia e, adesso, la Germania di Angela Merkel si introducono come una piacevole ed efficientissima novità. Ma non è finita: la media europea della percentuale di donne al governo è del 24%, superata egregiamente solo dalla Svezia che si attesta sul 52,6%.
Per quanto riguarda il profilo societario invece emerge la Norvegia, ormai lanciata in una corsa sfrenata al femminismo, dove le imprese private che non riservano alle donne un numero sufficiente di posti nel loro Cda rischiano di diventare fuorilegge, sotto la seria minaccia del ministro per l’infanzia e la famiglia Karita Bekkellmen che ha stabilito una quota rosa minima del 40%.
Sull’Italia stendiamo abbondantemente più di un velo pietoso. E non solo, com’è noto, sul profilo politico.
Il Sole 24 Ore ha pubblicato Lunedì 21 Novembre 2005 un’indagine del Cerved sulla presenza delle donne nelle aziende che rivela dati talmente allarmanti che qui la Bekkellmen potrebbe cominciare a varare la costruzione di lager per maschilisti.
Nel blu dipinto di blu dei Cda italiani, le donne a quanto pare fanno proprio fatica a farsi posto. Pare infatti che le donne che ricoprono almeno una carica di amministratore all’interno delle società di capitali siano solo il 20,5% del totale, per di più in una fascia di età estremamente limitata che si colloca tra i 30 e i 49 nel 53,1% dei casi e in aziende di solito molto giovani, spesso addirittura con meno di tre anni di vita. La percentuale scende al 14,3% se si restringe il campo alle sole Spa e precipita addirittura intorno al 4% considerando esclusivamente gli organi di governo delle società quotate in borsa dove, secondo una ricerca del servizio Analisi Mercati Finanziari, su 2.452 consiglieri di amministrazione di Piazza Affari, solo 100 sono donne. La percentuale sale sensibilmente fino a raggiungere il 6,7% solo su aziende familiari , ma appunto qui il 53,4% delle consigliere appartiene alla stessa famiglia e siede nel Cda esclusivamente per questo motivo, tant’è che solo nel 4,5% dei casi ricopre il ruolo di presidente e solo nel 5,4% quello di amministratore delegato. Le poche donne del business, che in ogni caso dicono no alle quote rosa, si lamentano infatti di una società maschilista, di pregiudizi, di un gap culturale ed operativo.
E questo discorso è valido, né più né meno, in campo politico, dai consigli circoscrizionali al Consiglio dei Ministri.
Il problema è culturale. E, se è evidentemente un problema di rilevanza internazionale, non c’è dubbio che questo sia ulteriormente viziato da una mentalità tutta italiana: la mentalità del restare saldamente abbarbicati alle poltrone, ma anche la mentalità della donna mamma, della donna moglie, della donna casalinga, della leadership politica in senso strettamente maschile, della conduzione maschile aziendale e perché no dell’erede maschio a cui lasciarla ereditare.
E’ chiaro che quotidianamente il gap tra mondo maschile e mondo femminile si va restringendo, è chiaro che il rispetto reciproco, la collaborazione fianco a fianco, il confronto intelligente anche all’interno della famiglia stia gradualmente insinuando nei cervelli maschili italiani il dubbio che da una donna si possa cavare qualcosa di più di un piatto di spaghetti al pomodoro. Ma questa quotidianità è lungi dal trasformarsi nell’affermazione della donna manager, della donna leader. Questi concetti l’esemplare maschio italiano non li accetterà mai e, per quanto possa essere anche esasperatamente mammone o donnaiolo, resterà sempre un maschilista, talvolta un misogino.
Di questo tutte le donne hanno piena, esatta, puntuale consapevolezza.
Ma allora cosa discutiamo a fare di quote rosa, quasi che fossimo una categoria protetta, una minoranza sociale o una specie in via d’estinzione? L’assenza delle donne non è un difetto tecnico, un’inadempienza materiale: è un problema culturale e la storia tanto quanto la ragione ci insegna che i problemi culturali non si possono modificare facendo varare al parlamento questa o quella legge. Nessun cambiamento culturale può nella maniera più assoluta essere imposto dall’alto, ma va indotto dal basso, va indotto dalle donne, va indotto da quegli uomini che riconoscono alle donne capacità e competenze. Va fatto all’interno dei consigli d’amministrazione dove i soci stessi dovrebbero scommettere sulla fiducia alle donne, rinunciando ad una fetta del loro irriducibile orgoglio maschile anche per il bene e l’innovazione delle aziende stesse. Va fatto all’interno dei partiti con un maggior coinvolgimento delle donne nelle attività, nei direttivi, nelle liste dei candidati. Va fatto innanzitutto dalle donne che dovrebbero mettersi in gioco, lanciarsi sul campo, mirare in alto e mirare bene, dimostrarsi coinvolte ed interessate: anche questo è un dato di fatto, in molti ambienti la partecipazione femminile è ridotta al minimo e talvolta addirittura inesistente non perché gli uomini le emarginino ma perché esse per prime non si sono ancora del tutto emancipate. In ambito politico ad esempio è anche vero che la partecipazione attiva non è cercata dalle donne così spesso come si vorrebbe far credere e quindi dovrebbero essere innanzitutto loro a scommettersi, ad ampliare il loro raggio di azione e di interesse.
Solo così potremo dire veramente, con onestà e un pizzico di orgoglio… donne al potere!



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