Premessa. La regista televisiva Marta è in procinto di cominciare un nuovo programma televisivo incentrato su alcune autorevoli personalità di ambito scientifico e intellettuale. In compagnia dei suoi collaboratori si mette in viaggio per l’Europa alla ricerca dei personaggi che popoleranno la sua trasmissione e, tra i tanti intervistati, si imbatte in un santone che pratica sulle persone una sorta di ipnosi capace di condurre l’individuo a una dimensione regressa, inconscia, mai vissuta.
Marta si sottopone all’esperimento e viene catapultata nell’epoca del grande Ludwig Van Beethoven, sua ossessione nella vita reale, e adesso suo amico e maestro.
Parliamo di un film su Beethoven quindi. La sua intera vita, tutte le sue opere, il corretto flusso narrativo, tutte le sue emozioni raccontate con i colpi di scena giusti al posto giusto, le pause che catturano il pubblico e lo portano allo stupore del momento clou. Continuando su questa falsa riga descriveremmo un film, anzi, forse un canonico bel film, ma dobbiamo parlare di Musikanten, l’ultimo film di Franco Battiato. La descrizione di ciò che non troveremo è la migliore delle istantanee che catturano la realtà di questa sua ultima opera, fatta di stilemi classici del cinema saltati a piè pari, non per il gusto di evitarli, ma per il proposito (arduo ma affascinante) di raccontare con una nuova “arte” le ultime fasi di vita di Beethoven. Insolita e anch’essa d’avanguardia la scelta (forzata) di portare il film personalmente di città in città, vista l’impossibilità di trovare distribuzione. È una nuova dialettica quella che Battiato consegna allo spettatore che, a leggere le varie recensioni e le polemiche seguite alla proiezione fuori concorso all’ultima mostra del cinema di Venezia, si è alzato quantomeno confuso dalla rassicurante seggiola rosso porpora che settimanalmente (ben che gli vada) lo accompagna nella visione dei più noti film “di cassetta”.
Non vi è nessuna scossa drammaturgica né nella prima parte, utilizzata come espediente narrativo e abbandonata come tagliata di netto, né nella seconda, dove ci viene aperta dal regista una finestra discreta sull’esistenza di Beethoven, fatta della gioia del comporre sdraiato per terra col pianoforte smontato delle sue gambe e del dolore emotivo nel constatare che la sordità pian piano lo avvolgeva, proprio lui, Ludwig Van Beethoven. E proprio su questo dolore Battiato ha ridisegnato le coordinate dell’emozione nel suo film, con la geniale quanto immediata intuizione di proporre conflitti sonori tra ciò che sentiva l’ormai quasi totalmente privo di udito Beethoven ed il pubblico, ovvero un fastidioso ronzio contrapposto alla maestosità della composizione orchestrale. Non ha avuto bisogno di spettacolarizzare nessun evento, anche perché nessun evento spettacolare viene raccontato, tantomeno quello più ovvio e scontato, ovvero la morte, decidendo nella sceneggiatura di non far morire Beethoven tra dolori, fetore e pidocchi com’è successo nella realtà, ma tra lenzuola pulite e bianche. Gli stessi interpreti, con un magistrale Alejandro Jodorowsky nella parte del compositore, sono volutamente prosciugati da qualsiasi vena espressiva, non si scuotono e non vogliono scuotere.
Battiato ha rispettato fin troppo alla lettera l'idea di fondo, ovvero quella di non cedere assolutamente alla costante del fare un film che “piaccia al pubblico”, ma ha comunque dimostrato di perseguire, come nella sua musica anche nel cinema, uno stile autonomo. Sperimenta per il desiderio acuto di possedere una propria tecnica, una poetica personale, sua e di nessun altro.
Argomenti correlati: #battiato, #musica, #recensione
Tutto il materiale pubblicato è coperto da ©CopyRight vietata riproduzione
anche parziale
Il sito utilizza cockies solo a fini statistici, non per profilazione. Parti terze potrebero usare cockeis di profilazione
|