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Anno II n° 3 del 16/02/2006 LENTE DI INGRADIMENTO |
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Riflessione sulla morte
Talis vita finis ita! ... Ma è sempre così?
Di Fr. Mirko Sellitto (mushino)
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Il pensiero della morte per me non è stato mai eccessivamente terribile, mai “la morte” in sé ha destato in me paura, scoraggiamento, senso di annientamento, di fine di tutto; mai mi ha portato a tirare i remi in barca al pensiero che tanto non sarebbe rimasto nulla. Quelle che seguono sono semplici riflessioni personali, immediate e forse non troppo ordinate, su ciò che suscita in me la realtà della morte.
Ricordo che fin dall’adolescenza ho dovuto assistere alle lacrime strazianti di giovani madri e mogli per la perdita improvvisa e violenta dei loro cari. È uno “spettacolo” che non auguro a nessuno, dove si vedono in tutta la loro crudezza i segni che la morte lascia sul volto di chi resta, di chi si sente “solo col suo dolore”. A queste si aggiungono le numerose morti per l’età avanzata o preparate da una lunga malattia. La domanda di tutti era e sarà sempre la stessa: “perché?” La risposta che si cerca non è medica ma esistenziale. Non potendo sempre entrare nella vita altrui mi sono spesso chiesto: “e se toccasse a me, ora?”, “come mi sentirei da morto?”. Queste domande presuppongono la certezza in me che la morte non è l’ingresso nel nulla, ma una situazione nuova, dove l’identità e la coscienza di sé non si spengono e, in certo modo, si continua a vivere. La sensazione – dunque – è sempre la stessa: se la mia coscienza mi presenta come resoconto più il bene fatto che il male, se fa emergere più relazioni sane o sanate rispetto a quelle in bilico, allora mi sento pronto a morire, tranquillo di aver speso bene la mia vita. In caso contrario sento l’urgenza di dover restare ancora, di dover portare a termine qualcosa che la morte lascerebbe irrimediabilmente incompiuto. Sì, la prima reazione che ho è sempre legata alla vita vissuta. Ognuno costruisce la propria morte durante la vita, ognuno prepara l’aldilà nell’aldiqua. La mia unica paura è quella di dover piangere per l’eternità per le occasioni di bene lasciate cadere, per le possibilità di costruire qualcosa con qualcuno non sfruttate per pigrizia, per superbia o per egoismo. Ho anche pensato che chi deliberatamente vive nel male, come se fosse bene, si sta preparando già qui un terribile post-vitam. Talis vita finis ita! Com’è la vita così è la morte! Certo, sono fortunato a poter dire ciò. La mia esistenza mi ha sempre offerto delle carte da giocare. Ho potuto quasi sempre scegliere dove condurre la mia vita, liberamente. Ma c’è chi queste chanches non le ha più o non le ha mai avute. C’è chi si sente già morto, chi percepisce che la sua vita non ha più nulla da dire; forse per gli errori commessi o forse perché qualcuno ha provveduto a spegnere in lui qualsiasi energia. Quanti si piangono già morti? Non mi riferisco alla malattia fisica, ma a quella dello spirito che oggi colpisce coloro che non riescono più a stare al passo o quelli che hanno subito violenza, e che questo mondo veloce e votato al profitto e al progresso non vede più. Non posso accettare che la morte non riservi loro qualcosa di positivo, che sia il “risultato matematico” della loro vita. Mi viene in mente che i neri deportati in America facevano festa quando moriva uno di loro perché finalmente aveva cessato di soffrire il giogo della schiavitù. Forse anche per costoro la morte può essere uno sbocco, tanto che alcuni se la procurano da soli. Anche se non approvo questo gesto, comprendo la disperazione di chi lo compie. A questo punto una sintesi: il segreto per continuare a vivere è identico a quello per prepararsi a morire, dare un senso. Come diceva Victor Frankl: «se ha senso la vita allora ha senso anche la sofferenza e la morte, perché ne fanno parte». Solo chi ha la forza di compiere il “miracolo di dare un senso” a qualunque situazione della vita riesce a guardare alla morte con maggiore serenità, altrimenti essa è un baratro in cui gettarsi. E dare un senso significa sperare, in sé stessi, nelle proprie possibilità di battere ancora le ali per rialzarsi un po’ da terra, gridare, per sentire ancora la forza della vita in sé. La morte allora può diventare il “passaggio” che ci conduce verso ciò che abbiamo desiderato sempre: la felicità intangibile, frutto delle fatiche sostenute e dell’aver tenuto duro sempre, il tempo in cui il bene che abbiamo sempre operato e anche desiderato ci viene dato in pienezza. Da morti penso che ci ritroveremo insieme a sorridere di noi stessi, per esserci in vita attaccati a delle piccolezze pensando fossero il massimo per noi! Sorrideremo per aver pensato spesso che quei pochi o tanti anni di vita erano “il tutto” e ci siamo aggrappati a volte egoisticamente a ciò che soddisfaceva il nostro “istinto di sopravvivenza”, che ci rendeva incapaci di guardare fuori di noi. Anche per chi non ha avuto la forza di rialzarsi la morte sarà un tempo di “redenzione”, dove le lacrime saranno asciugate e la gioia di cui la vita li ha privati sarà loro restituita moltiplicata. Io ci credo. Io so di dover morire e questo mi spinge a vivere bene la vita che ho, che non so quando finirà. So che se avrò speso bene quest’unica possibilità ne sarò felice per l’eternità. Ma so anche che se non arriverò a tutto e se non farò tutto bene non sarà un dramma perché ho dato il meglio di me, in coscienza. Noi che ne abbiamo la possibilità diamo un senso positivo alla nostra vita e ci accorgeremo che la morte non farà più paura: solo la vita vince la morte! E se conosciamo qualcuno che vive “moribondo” tendiamogli la mano perché questa vita sia più vita per lui e possa sperimentare già qui la felicità che la morte completerà. |
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