Nell’articolo precedente lamentavo l’eccesso di flessibilità nel lavoro soprattutto giovanile che viene troppo spesso utilizzato dalle aziende in pura funzione di contenimento dei costi con rotazioni di personale sulla stessa posizione con tanti saluti alla professionalità e che, per la sua estensione, rischia di creare una generazione di precari. Si segnalava anche la necessità di intervenire sul meccanismo con qualche elemento di garanzia in più per il lavoratore, avendo ben presente la non convenienza a riproporre il sistema ingessato che è durato sino a qualche anno fa e che, per l’esasperata resistenza a difendere il posto di lavoro di chi già l’aveva, creava barriere all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.
Per dimostrare come il tema sia di attualità non solo italiana, rimando alle vicende francesi, ove si è cercato di affrontare il problema dell’inserimento dei giovani con un contratto d’ingresso biennale interrompibile dal datore di lavoro in qualsiasi momento: soluzione molto opinabile e contestata anche da aree di maggioranza, anche se prevede sussidi di disoccupazione. Al di là del giudizio sulla via francese all’occupazione giovanile, è evidente che il problema c’è e che si sta faticosamente cercando un compromesso tra esigenze di flessibilità ed interessi del lavoratore.
Ma restiamo a casa nostra, in Italia, dove tutti i problemi sembrano situarsi in una dimensione e con caratteristiche differenti rispetto agli altri Paesi, quasi fossimo condannati da non si sa chi o cosa a distinguerci nel bene (non sempre) o nel male (più spesso).
La prima importante differenza tra la struttura dell’occupazione italiana con quella dei Paesi con cui amiamo confortarci è la ristrettezza della base: le percentuali della popolazione attiva non hanno la stessa significatività che avevano anche solo un decennio fa, perché accomunano lavoratori a tempo pieno con quelli a part-time o a domicilio. Purtuttavia sono oltre dieci i punti percentuali che ci separano da Francia e Germania.
Il secondo dato è contraddittorio: proprio in questi giorni la Fondazione Agnelli segnala con notevole allarme il calo della popolazione in età di lavoro (tanto per capirci, quella che va dai 15 ai 64 anni di età), affermando che siamo già in una fase in cui la mancata sostituzione incide sulle capacità produttive. Passando davanti all’ufficio postale ho visto la coda degli immigrati che sperano di entrare nel contingente dei 170 mila che verranno regolarizzati. 170 mila persone: ad occhio sono gli abitanti della ventesima città italiana per popolazione: Eppure, forse, non basteranno: eppure, con questa prospettiva sotto gli occhi, non si vedono processi tendenti a fidelizzare la manodopera.
Un terzo elemento, sempre desunto dalla cronaca di quest’ultima settimana è la pubblicazione da parte del corsivista economico del Corriere della Sera del saggio “una Repubblica fondata sulle rendite”. Per il filone che stiamo seguendo, un dato è significativo: “Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito; nel 1972 era il 59,2%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredito, ora è lo stesso del 1951”. Cerchiamo di capire. E’ ben vero che questa percentuale è influenzata dal basso tasso di occupazione; è altrettanto vero che la crescita dei redditi di lavoro indipendenti stata molto accentuata. Ma è assolutamente vero che, a partire dagli anni 90 (prima dell’euro, tanto per intenderci) è cominciata l’erosione del potere reale d’acquisto dei salari, accompagnata da una politica fiscale che premiava i guadagni da capitale.
Conclusione di Alvi, che è la mia: si devono snidare le rendite, diminuire le spese statali e riversare quanto ottenuto in investimenti e salari.
Come mai questi temi, centrali per il nostro futuro, non trovano spazio nei programmi dei partiti e soprattutto nel dibattito preelettorale? Eppure sono i problemi di ogni famiglia.
L’articolo precedenete è "I lavoratori sono un patrimonio per l’azienda: gli
imprenditori oggi ci credono veramente?" sul numero 4 del 02/03/2006 vedi
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