Sabato 26 aprile 1986, ore una e 23 minuti, il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl esplodeva. Con la spinta di 1700 gradi di calore e attraverso il tetto squarciato si levava nel cielo notturno dell’Ucraina una enorme palla di fuoco pari se non superiore a quella della bomba di Hiroshima.
Il reattore si era trasformato in un camino nucleare, a contatto con l’aria la grafite aveva preso fuoco, la temperatura era aumentata e i vapori caldissimi avevano proiettato nell’atmosfera, fino a 1200 metri di quota, una micidiale miscela di radionuclidi. Una nube radioattiva, che avrebbe raggiunto l’Europa in breve tempo, si levò in quell’istante per poi scaricare al suolo dapprima le sostanze più pesanti ed in un secondo tempo le sostanze leggere e gassose. La palla di fuoco e la colonna di fumo avevano segnato l’inizio di un dramma.
L’équipe medica, arrivata da Mosca dieci ore dopo l’esplosione, tracciava immediatamente questo bilancio: 299 persone da ricoverare di cui 204 colpite da leucemia grave, tutte al di sotto di trent’anni, vigili del fuoco, medici e infermieri, lavoratori della centrale, addetti alla mensa, tra i quali alcune donne. 114 feriti furono immediatamente trasportati all’ospedale di Mosca, gli altri a Kiev e in vari centri della regione. Ventinove di loro moriranno dopo qualche settimana.
Nessun piano di emergenza specifico era scattato a seguito dell’incidente. I pompieri di Chernobyl e Pripyat rimasero, privi di tute adeguate, per un’ora intera in mezzo al fuoco nucleare, contro tutte le normali norme di sicurezza. Medici e infermieri intervennero immediatamente nell’area dell’incidente eseguendo centinaia di analisi del sangue in poche ore, sebbene nella zona contigua alla centrale la gente continuasse a essere tenuta all’oscuro di quanto era successo. L’inizio del giorno dopo trascorse nella tranquilla incoscienza dei cittadini ignari e delle autorità irresponsabili.
Come se nulla fosse accaduto, i bambini giocavano nei prati, il bestiame veniva portato al pascolo.
L’allarme scattò domenica mattina, ma solo per i 45mila abitanti di Pripyat, la città più vicina alla centrale, dove risiedevano i dipendenti con le loro famiglie. L’evacuazione cominciò alle 14.
Erano passate trentasei ore dall’esplosione. Gli abitanti di Chernobyl e degli altri villaggi vicini assistevano a questo esodo sicuri che da lì a poco sarebbe arrivato anche il loro turno.
La verità, in tutta la sua tragicità, esplose lunedì mattina con i segni inconfondibili dell’emergenza: un traffico mai visto di camion e ambulanze; posti di blocco per il controllo della radioattività; gli studenti rimandati a casa con la raccomandazione di lavarsi i capelli, cambiarsi gli abiti e le scarpe, non uscire; strade e autostrade annaffiate; la zona attorno alla centrale, per un raggio di dieci chilometri, sgombrata, inaccessibile, presidiata dai militari. Si videro gli elicotteri scaricare sul reattore sabbia e altri materiali adatti a soffocare l’incendio e bloccare la fuoriuscita radioattiva, mentre si lavorava per proteggere i corsi d’acqua.
Queste le conseguenze che si sarebbero perpetuate nel tempo, nelle popolazioni, nei luoghi e nelle generazioni future: dispersione della radioattività nell’aria, nel fogliame, a terra, nelle acque; contaminazione per esposizione diretta, inalazione o catena alimentare.
Solo il 21 agosto del medesimo anno fu data ufficialmente notizia che le emanazioni radioattive sarebbero cessate soltanto quando il reattore sarebbe stato completamente sepolto, avvolto cioè in un sarcofago di cemento armato e acciaio a più strati, la cui costruzione in quei giorni era appena iniziata.
L’incubo durò qualche settimana. Il bilancio ufficiale dell’esodo dalle aree più contaminate ammontò a 135 mila persone di cui 45 mila bambini, che resteranno sotto controllo medico per tutta la vita.
Si è stimato che questa catastrofe provocherà 40 mila casi di cancro nei prossimi 70 anni, con un incidenza diversa da zona a zona ma che per i 135 mila evacuati dovrebbe essere venti - trenta volte più alta della norma. Nel resto del mondo, per lo stesso periodo, saranno 20 mila i tumori associabili alla nube radioattiva.
La nube ha scaricato in Europa - soprattutto nelle regioni più vicine alla centrale e in Polonia - Iodio 131, cesio 134 e 137, cripto, rutenio 103, tellurio 132, stronzio 90, plutonio 239, cobalto, bario 140 e altri radionuclidi.
Dalla cima di un albero il cesio può cadere al suolo, penetrare nel terreno, raggiungere le radici, trasmettersi ai germogli, ricadere al suolo con le foglie, mischiarsi all’erba dei pascoli, entrare nei muscoli di un animale da carne o da latte, esser trascinato con limo nelle acque di fiume, contaminare i pesci. Non c’è radiazione che sia innocua, che possa essere assorbita dal nostro corpo senza lasciare traccia, senza imporci un prezzo da pagare.
La morte radioattiva non è quasi mai violenta, è subdola, può presentarsi dieci, venti, trent’anni dopo, con una malattia difficile da associare. La pelle, i reni, i polmoni, la tiroide, le ossa sono tra gli organi più esposti alle malattie, inoltre va ricordato che le radiazioni causano mutazioni genetiche ereditarie, leucemia e altri tumori che possono insorgere anche con un ritardo di moltissimi anni, dosi elevate provocano l’immediata caduta dei capelli, la comparsa di piaghe, la sterilità, la distruzione del midollo osseo che presiede alla riproduzione dei globuli e delle piastrine del sangue.
I bambini e gli organismi giovani, i neonati e gli embrioni, sono in genere i soggetti più esposti, perché le loro cellule si riproducono a una velocità amplificata. Una radiazione che colpisce una donna incinta può tradursi in alterazioni che si manifestano alla nascita del bambino e che si trasmettono alle generazioni successive. Sono estremamente vulnerabili anche gli organi riproduttivi, sia maschili che femminili, in cui sono contenute le cellule a partire dalle quali si costruirà il codice genetico della prole. Questo spiega perché il danno di Chernobyl è destinato a non finire con la generazione dei viventi di oggi ma continuerà ad agire su esseri che devono ancora nascere e persino essere concepiti.
Le previsioni di 4.000 morti però erano fin troppo ottimistiche, ad oggi i morti sono stimati in mezzo milione, e domani?
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