La recente pubblicazione del settimo Rapporto sulle retribuzioni in Italia consente di riprendere alcuni temi sollevati da qualche nostra recente nota sull’occupazione, in particolare su quella giovanile. Abbiamo fatto qualche riflessione soprattutto sull’eccesso di flessibilità come elemento che può minare strutturalmente la capacità complessiva di un’azienda, distruggendone la cultura specifica, fatta di conoscenza ed esperienza: vediamo oggi invece aspetti di carattere salariale, trattati nel saggio dell’autorevole società bergamasca OD&M, diretta da Mario Valvassori.
L’analisi comprende le retribuzioni nel periodo 2001–2005, analiticamente comparate per comparti economici, per categoria di impiego e per dimensione di azienda, e viene considerata come la più attendibile e completa nel suo campo, in quanto basata sulla registrazione di situazioni reali.
La prima curiosità che viene, ovviamente, è quella di capire come si sono evoluti gli stipendi nel periodo considerato, chi ha acquistato e chi ha perso potere d’acquisto, atteso che il famoso NIC, indice dei consumi nazionali elaborato dall’ISTAT – absit iniuria verbis!- segna un incremento nell’ordine del 9,6% e che giocoforza utilizzare questo parametro, lasciando da parte amare considerazioni.
I più valorizzati risultano essere i quadri, con un incremento medio del 7,5%, seguiti dai dirigenti col 5,75; sostanzialmente stabili gli stipendi operai che debbono lo striminzito +1,7% ad incrementi ottenuti nell’ultimo biennio; un –5,8% segna il tracollo delle retribuzioni impiegatizie. E’ legittimo pensare che sul modesto recupero degli stipendi operai incida la presenza sul mercato del lavoro di manodopera extracomunitaria; il crollo degli stipendi nel settore impiegatizio è invece collegabile ad una vera e propria crisi di ruolo, indotta da nuove tecnologie che continuano ad automatizzare processi tradizionalmente svolti da questa categoria, ormai in sovrabbondanza.
All’interno di questi dati di carattere generale vi sono alcuni elementi forse non noti, da cogliere. Il rapporto tra gli stipendi del dirigente medio e quello dell’operaio è di 1:4,5, tutto sommato nella media europea. L’operaio dell’azienda di piccole dimensione guadagna mediamente un 10% più di quello inserito nella grande azienda: difficile dire se si tratti di uno scambio tra un’ipotetica maggior certezza del posto di lavoro e la retribuzione o se non significhi – come penso – la maggior valorizzazione delle competenze individuali.
Ma quello che maggiormente ci ha colpiti è un filone di ricerca che si ricollega ai problemi del lavoro soprattutto giovanili: abbiamo cercato di denunciare l’ecccesso di flessibilità. Oggi vediamo gli aspetti salariali, sia pure da un’angolatura parziale. Si tratta di giovani laureati già inseriti nel mondo del lavoro e gli esiti rilevati da OD&M sono a dir poco sconcertanti.
In campo nazionale, la retribuzione del laureato non ancora trentenne con 1-2 anni di esperienza è stabile, al netto del NIC dello 0,8% nel periodo 2001-2005; peggio è andato a quelli con maggiore esperienza, da 3 a 5 anni – i cui stipendi reali sono calati del 5% (un mese di stipendio in meno, mal contato). Se il trend si confermasse, man mano che il tempo passa le condizioni di questi giovani rispetto alle classi di età che li hanno preceduti tenderanno a distanziarsi, in peggio, ovviamente. La speranza è che lo schiacciamento di questa fascia – che paradossalmente è costituita da quella sulla cui formazione si è maggiormente investito - sia determinata da fatti congiunturali.
Di fronte ad un fenomeno come questo bisogna fare anche altri tipi di riflessione. Abbiamo troppi laureati? Conviene laurearsi? Il nostro sistema economico non è preparato a ricevere il numero crescente di laureati che si affacciano al mondo del lavoro? La preparazione dei laureati è scadente?
Domande cui personalmente saprei rispondere, ma mi piacerebbe avere un riscontro dai lettori.
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