Nel giro di poche settimane sono completamente cambiati i vertici di governo in Palestina e Israele; non possiamo dimenticare che qui è l’origine dello scontro che da mezzo secolo si è espanso in tutto il mondo e che Bush ha definito giustamente “la terza guerra mondiale”.
In Palestina vince l’ala oltranzista, considerata terrorista, e in Israele vince una costola della destra che abbandona l’intransigenza e si muove ora verso la ricerca della pace. Due scelte che appaiono alla prima lettura di segno diverso, ma sappiamo che in politica uno piu uno non fa mai due! Così si deve procedere con molta cautela nelle valutazioni.
Hamas ora deve governare. Questa è una realtà che necessariamente andrà a modificare il modo di essere di un partito: non si può governare col terrorismo in casa. Inoltre il nuovo governo ha la necessità di avere appoggi internazionali e chi ha finanziato fino ad ora Hamas difficilmente potrà anche accollarsi gli aiuti internazionali che mantenevano il livello di vita in Palestina ad un minimo accettabile.
Ecco allora che uno dei primi atti a cui abbiamo assistito, nel corso del Consiglio Legislativo Palestinese a Ramallah, è stata la dichiarazione di Ismaïl Aniyeh, premier designato: Hamas è pronto a dialogare con i mediatori internazionali del Quartetto, cioè USA, Unione Europea, Russia e Onu.
La motivazione è chiara: infatti Aniyeh ha chiesto agli Usa di rivedere la propria politica nei confronti del popolo palestinese il quale, dice Aniyeh, non deve essere punito per la propria scelta elettorale; è ovvio che per avere questo dovrà cedere su qualcosa.
Motivazioni diverse nel cambiamento a Gerusalemme, ma anche qui il problema delle difficoltà economiche non è estraneo. Infatti la politica di tagli fatta da Netanyahu, come ministro del Tesoro, ha creato difficoltà allo “stato sociale” israeliano e ha allontanato elettori dal Likud e dato forza in particolare al partito dei pensionati.
Su tutto questo poi gioca evidentemente la necessità di sicurezza, e i “coloni” diventano così un elemento radicale da rendere innocuo e non da soddisfare. L’intuizione di Sharon di ritirasi nei confini storici, senza contropartite, diventa vincente e fa completamente tramontare il sogno della “Grande Israele”. Così Ehud Barak, ex primo ministro laburista, che nell'estate del 2000 con Clinton tentò, inutilmente, la «pace di Camp David» con l'Anp di Yasser Arafat, può dichiarare in un’intervista concessa all’Unità: “Oggi Israele è chiamata ad attuare unilateralmente ciò che Arafat rifiutò allora, dando prova di una assoluta irresponsabilità: ciò significa delineare i nuovi confini dello Stato di Israele, accorpando gli insediamenti di Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndr.) in tre grandi blocchi al di qua della Barriera di separazione ed evacuare le restanti colonie”.
Il 26 marzo, ancora prima delle elezioni, un alto membro del Kadima (il partito israeliano che ha vinto), ha sentito così la necessità di chiarire che in caso di vittoria nelle elezioni, il suo partito considererebbe scrupolosamente la possibilità di dialogo con il governo autonomo guidato da Hamas.
Ora non è opportuno illudersi, ma c’è una assoluta verità: le situazioni sono cambiate in modo radicale. I problemi da superare sono tanti è difficili, ma si sa che questo è il compito della diplomazia.
Una considerazione in chiusura: sarà molto più facile arrivare a soluzioni se una volta tanto l’Europa Unita, di fronte ad un problema di così grande importanza per la propria sicurezza e in cui è direttamente coinvolta per la vicinanza dei territori, si decidesse a sviluppare una politica unitaria forte e non la solita accozzaglia delle politiche contrastanti dei vari paesi. Questa potrebbe essere l’occasione per il rilancio di un’idea “europea” sentita dai popoli, ma non dai Governi.
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