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Elezioni: lotta infame Di Concetta Bonini
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Si avvicina il 9 Aprile, inesorabilmente.
Prima di ogni campagna elettorale si è soliti dire “questa campagna elettorale non è come le altre”: ebbene questa volta davvero, non è come le altre. Tutto quello che la contraddistingue infatti non è che la concretizzazione delle bestialità di questa nuova legge elettorale e il paradigma di un nefasto ritorno al mare magnum del sistema proporzionale. Sia ben chiaro: il ritorno al proporzionale era auspicato da più parti e ha una sua logica non condannabile in toto pur dopo i traumi della prima repubblica. Ma –come dire- c’è proporzionale e proporzionale! E quello proposto dalla Casa delle Libertà e votato con decisione unilaterale, come abbiamo già avuto modo di dire a suo tempo, è un proporzionale zoppo, monco ma soprattutto sordo. Sordo alle esigenze dei territori, sordo alle istanze dei cittadini. La mancanza della preferenza sostanzialmente svuota il senso della scelta: non andremo più a scegliere il nostro candidato, quello che ha lavorato per il nostro territorio, quello che siamo andati a cercare quando avevamo un problema da risolvere, quello che ci ha convinti con la sua competenza e la sua capacità. Andremo a mettere soltanto la croce su un simbolo che ha già scritto il destino dei suoi deputati e dei suoi senatori, ha già deciso chi innalzare alla gloria di una poltrona a Montecitorio e chi catapultare su posizioni fallimentari per semplice candidatura di servizio. A noi non resta che attribuire plebisciatariamente il nostro sì o il nostro no a listoni già preconfezionati che raramente riescono a trovare punti di incontro con la nostra volontà. Nel momento in cui sono le segreterie centrali a stabilire le sorti dell’elezione, definendo a priori chi candidare e dove candidarlo, nel momento in cui le unità di misura non sono più collegi ma intere circoscrizioni in cui il candidato papabile non ha niente a che vedere coi singoli territori né ha possibilità di conoscerne i bisogni e proporre soluzioni, l’atto del voto appare svuotato di molto del suo senso. Cerchiamo di essere molti pragmatici. Muovendoci nell’ambito delle candidature alla Camera e al Senato, ci ritroviamo con i primi candidati , cioè quelli “sicuri”, che non avrebbero neppure bisogno di farsi la campagna elettorale, con gli ultimi candidati, cioè quelli senza speranze, che non avrebbero altrettanto bisogno di farsi la campagna elettorale, e con i candidati del limbo che non hanno ancora ben compreso cosa sia più conveniente fare. Sostanzialmente ognuno è invitato ad aprire la propria mente all’immaginazione per trovare il senso, la strategia e lo scopo della propria campagna elettorale. Da non sottovalutare l’effetto boomerang con cui questo sistema agisce sulle stesse coalizioni. Infatti i partiti si ritrovano ad avere come avversari non tanto la rispettiva opposizione poiché gli spostamenti da uno schieramento all’altro sono molto piccoli, quanto piuttosto i propri più vicini e cugini. Facciamo un esempio: con un sistema del genere Casini e Berlusconi non possono che farsi, se non palesemente quantomeno territorialmente, la guerra a vicenda. C’è infatti una massa di gente che finora ha votato semplicemente “il Polo”, ma standosene comodamente seduta nella borderline tra i due partiti che ora si daranno lotta spietata per conquistare questi elettori ambigui in un sistema governato dal “con me o contro di me”. Eppure le forze del Polo sembrano essersi spartite i compiti con sorprendente lucidità. Con una metafora calcistica potremmo dire che Berlusconi, Fini e Casini indossano la stessa maglia, ma giocano su uno schema a tre punte in cui ognuno copre un’area diversa nella speranza di andare infine a coprire l’attacco quantomeno sulla propria metà del campo. Berlusconi, da capocannoniere di nome e di fatto, si è assunto l’arduo compito di radicalizzare lo scontro. Del resto era l’unico a poterlo fare, l’unico a potersi realmente porre sulle posizioni intransigenti che possano accattivare quella fetta di elettorato che odia sinceramente e tutt’altro che cordialmente le sinistre. Paradossalmente -ma non troppo- ha più titolo lui per farlo che non Fini o qualsiasi altro esponente delle ali estreme, radicale ma poco credibile. Berlusconi era l’unico che potesse puntare sul manicheismo, sul tutto bianco o tutto nero, era l’unico che potesse giocare davvero a guardie e ladri. Lui la vittima, la sinistra il carnefice. Prima il Corriere della Sera, un giornale che non è mai stato di sinistra ma che ha sempre bacchettato le scelleratezze di Berlusconi da Indro Montanelli ai nostri giorni, si schiera con Prodi: un atto di lealtà e trasparenza ai lettori forse, ma innanzitutto un favore a Berlusconi al quale Paolo Mieli ha dimostrato di avere sempre avuto ragione e al quale ha offerto infine un nuovo argomento del proprio processo di vittimizzazione. Processo che ha proseguito brillantemente la sua corsa davanti al delirante terzo grado di Lucia Annunziata, la quale ha dimostrato una volta e per sempre la sua completa inadeguatezza al mestiere e al ruolo che immeritatamente ricopre, ha insultato la professione giornalistica e ha fatto l’ennesimo favore a Berlusconi che ne è uscito con la faccia molto più pulita della sua. Il dibattito con Prodi poi è stato una farsa senza precedenti, finito sostanzialmente sullo 0 – 0, da un lato perché Berlusconi era stretto dai tempi e dai modi, dall’altro perché Prodi non è notoriamente una cima dell’arte oratoria. E’ stato soltanto dopo che Berlusconi ha iniziato a sparare a zero su tutto e su tutti: Confindustria, magistratura, opposizione in genere. No, non è né stanco né tanto meno un pazzo delirante che va a ruota libera: sta seguendo la sua strategia e lo sta facendo ad oltranza. Casini si è assunto invece il ruolo di intercettare quell’elettorato di centrodestra che si è stancato di Berlusconi o, meglio, non lo ha mai sopportato: per questo l’Udc ha il compito di sottolineare ad oltranza la propria diversità da Forza Italia e di puntualizzare che il proprio leader non è Silvio ma Pierferdinando. Lo stesso slogan del partito, “un’idea diversa”, si propone di rendersi accattivante nei confronti di un elettorato di centro, moderato, possibilmente cristiano, ma soprattutto di un elettorato che comprende evasi, delusi, disillusi. Gli udiccini di nascita, insomma, sono pochi: quelli di adozione invece sono, o quantomeno potenzialmente potrebbero essere, molti molti di più. E’ così che tutti coloro che sono disgustati dal governo Berlusconi e, allo stesso modo, dalla sua martellante campagna elettorale, travaseranno naturalmente nei partiti cugini: An e Udc. Non è un caso che i toni del dibattito tra Berlusconi e Prodi siano stati molto, molto diversi da quelli del dibattito tra Casini e Rutelli. Lì infatti Casini si è conferito il ruolo di grillo parlante del centro destra, di voce moderata. E’ anche vero che non si è scontrato con un uomo politico col quale fossero ipotizzabili muro contro muro. Rutelli anzi, si è posto anch’egli come l’anima moderata del centrosinistra, con toni altrettanto pacati e disponibili ad un dialogo maturo. Francesco Rutelli insomma, uomo che era capitato in politica come un bambino che nasce sotto un cavolo, ovvero per un miracolo che gli era stato concesso chissà per quale motivo inspiegabile al popolo italiano, sembra essere cresciuto molto in questi anni. Le cose che dice di solito appaiono, sebbene scarse di appeal, quantomeno pregnanti nelle argomentazioni. Il suo unico vero problema è l’essere diventato l’uomo “vorrei ma non posso” della sinistra italiana: le cose che dice sono condivisibili, ragionevoli, ponderate, moderate, adatte all’elettorato medio, ma completamente irrealizzabili nella sinistra così com’è oggi concepita. Insomma Rutelli vorrebbe essere l’alter ego rosso di Casini, la sua immagine speculare, l’anima moderata e possibilmente di ispirazione cristiana della sinistra, ma proprio per questo non potrebbe stare nello stesso condominio di coloro che inneggiano ai Pacs o peggio ancora invitano in parlamento gli stessi delinquenti che espongono striscioni inneggianti a “dieci, cento, mille Nassiryia”. Le anime della sinistra insomma sono tante, ma gira e rigira fanno un po’ tutte da cortigiane a Bertinotti e lo fanno perché non potrebbero non farlo, perché farlo è l’unica possibilità che hanno di raggiungere una percentuale decente e, perché no, di vincere. Anche perché Berlusconi oramai è talmente malconcio che una sconfitta per la sinistra sarebbe al dir poco umiliante. Anche se, bisogna dirlo, Berlusconi dovrebbe ringraziare di una sua eventuale vittoria proprio la sinistra e il popolo della sinistra che ha scelto Prodi come leader: un leader marcio quanto lui, oramai inflazionato quanto lui, che peraltro non è mai stato in grado di galvanizzare le masse e che, infine, non ha nemmeno un vero partito di appartenenza. Del resto se la sinistra avesse voluto riproporre lo stesso schema d’attacco calcistico della destra, non sarebbe bastato uno stadio intero a contenere tutte le punte che si sarebbero volute schierare. Tra queste Fassino e D’Alema che dopo i vari scandali che li hanno coinvolti, fatti saltare opportunamente fuori al momento giusto, non godevano al momento delle candidature di particolare credibilità. Tanto valeva allora insignire qualcuno del ruolo di leader, salvo ingabbiarlo poi nella rete già intessuta di ricatti e compromessi. Non sarà facile per Prodi, in caso di vittoria, gestire alcun tipo di politica sociale, economica e territoriale se si ritroverà in una vacillante coalizione di governo e con una certa voce in capitolo i Comunisti, i Verdi e chi più ne ha più ne metta. Lo sarà ancor meno di quanto lo sarebbe per Berlusconi continuare gli storici tira e molla con Bossi. Insomma tanto valeva essere coraggiosi e trasparenti: è chiaro a molti, se non a tutti, che come leader del centrosinistra sarebbero stati più credibili, nonché di gran lunga più capaci, Bertinotti o Diliberto. Presuntuosi e arroganti maestri del sospetto, non avrebbero vinto comunque ma, da politici di razza, avrebbero sicuramente saputo portare avanti uno scontro più dignitoso. Insomma la panoramica dei due poli e tutt’altro che confortante: chiunque dei due leader andrà a governare l’Italia avrà ben poco da guadagnarci. Agli elettori l’ardua sentenza. 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