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Anno II n° 7 del 13/04/2006 PRIMA PAGINA |
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Lo sbuffo
Il bambino torero
Di Giovanni Gelmini
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Su Libero si legge che Jairo Miguel Sanchez Alonso è il torero più giovane del mondo, ha solo 13 anni e ha firmato un contratto da 190 mila euro per prendere parte a 40 corride in Messico nel prossimo anno.
Mi rifiuto di proseguire: questa è una cosa semplicemente da far accapponare la pelle. Non penso solo all’educazione alla violenza che c’è in uno sport simile, ma ad altre due cose che sono pure di una violenza allucinate e sicuramente superiore, anche se forse appaiono di meno. La prima è l’incoscienza di un padre, di organizzatori di corride e di spettatori che sottopongono un bambino, già dall’età di 8 anni, al rischio di perdita della vita ed allo stress di una attenzione necessaria a salvarla: altro che il lavoro giovanile dei cinesi. La seconda è che questa attività è per le stesse parole del bambino: un lavoro, un lavoro ben retribuito come si legge, con tutte le responsabilità di un contratto vincolante di cui se ne rende conto e se ne fa carico. La mia sensazione è di raccapriccio, dov'è l’innocenza dei bambini? Quella libertà di fantasia, di crescita che si realizza nel gioco. Dov'è la possibilità di avere amici della stessa età con cui giocare o scazzottarsi liberamente, non per guadagnare? Il caso del bambino torero qui descritto però è solo un caso limite. Nella vita ordinaria troppi genitori, che si credono ottimi, fanno dei loro figli dei “piccoli toreri” e ne snaturano la vita. Quanti genitori obbligano i loro figli a seguirli in attività che piacciono a loro? Quanti li impegnano in sport agonistici, mettendoli in forte competizione con gli altri coetanei? Quanti li impegnano tutto il santo giorno in lezioni di lingua, pianoforte, danza, o altro, e tolgliendo così loro il sacrosanto diritto di “giocare” liberamente, senza nessuno scopo se non diventare piu sicuri e piu bravi e senza subire gli stress dovuti a confronti inutili e perniciosi? É solo attraverso il gioco che il bambino riesce a crescere in armonia con se stesso e con il modo esterno. È solo con il confronto “libero” con gli altri bambini, senza limiti di casta o di sesso, che il bambino riesce a imparare il modo di rapportasi con gli altri. Questo non vuol dire che il genitore non deve tenere un occhio attento, ma che questo occhio non deve essere invadente. Non deve scaricare sul figlio gli stress della competitività che il genitore ha nella sua vita e pretendere magari che il figlio riesca dove lui non riesce. Anzi è casomai il contrario. Se i genitori provassero a tornare bambini, a giocare con i loro figli con la stessa innocenza e con la capacità di godere delle cose semplici, forse imparerebbero a vivere meglio e sarebbero finalmente felici. |
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