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Riflessioni ex-ante

La Francia ed il 'Contratto di primo impiego'


Di Nibbio

Scriviamo queste brevi note in un momento in cui sembra - Chirac sta riunendo in consiglio Villepin ed i ministri interessati – che ci si avvii ad una clamorosa ritirata, con l’archiviazione definitiva del contratto di primo impiego e la sua sostituzione con altri provvedimenti per favorire l’occupazione giovanile. In attesa di conoscere e valutare queste nuove determinazioni vale la pena di fare qualche (contraddittoria) riflessione.

C’è una componente tutta francese nella vicenda: le inquietudini delle banlieu e le forme di protesta dei giovani e dei redivivi sindacati manifestano comunque un’insoddisfazione sociale. Con caratteristiche diverse, peraltro. I disordini violenti di fine anno sono figli dell’emarginazione, spesso di mancata integrazione; le più composte manifestazioni di queste ultime settimane sono attuate per il mantenimento di una rete di diritti che le generazioni precedenti si sono conquistate e che le attuali non vogliono perdere.

Ce la faranno? Sono gli alfieri di una ritrovata socialità o gli ultimi a combattere una lotta di retroguardia per il posto fisso e l’inamovibilità dal posto di lavoro?
Il problema non è più solo francese, ma almeno europeo.
Oggi l’Europa ha una serie di situazioni critiche: uno sviluppo economico al rallentatore; pesa la maggiore capacità attrattiva di investimenti industriali da parte di paesi a basso costo del lavoro o a bassa tassazione; preoccupa il progressivo ed allarmante invecchiamento della popolazione, con conseguente immigrazione; gli apparati pubblici sono dilatatati spesso oltre misura.

Chi governa si trova di fronte nella difficoltà di gestire una compatibilità tra le esigenze di rilancio dell’economia e di creazione di nuovi posti di lavoro e la permanenza di un welfare costruito nei decenni passati.

Sotto questa spinta si sta profondamente modificando addirittura il modello scandinavo, vanto della socialdemocrazia europea dal dopoguerra: ne sono testimoni la drastica riduzione dell’aliquota marginale (il mitico 87% della Svezia è ora sceso al 65%); la liberalizzazione dei servizi già gestiti dallo Stato; in particolare in Danimarca si pratica la libertà di licenziamento per le aziende con riqualificazione obbligatoria dei lavoratori esuberanti gestita da un sistema di formazione pubblico. Risultato: disoccupazione quasi sparita, anche se confessiamo di ignorare al momento la qualità di questa occupazione.
Il governo francese ha creduto di poter affrontare una problematica così difficile e complessa, intrecciata di aspetti economici e sociali di straordinaria rilevanza con un provvedimento che – aldilà delle probabilmente buone intenzioni di creare condizioni per cui le imprese fossero attratte ad assumere giovani – dimostra una visione eccessivamente semplificativa del contesto.
Questa legge è piombata infatti su una realtà esplosiva: nelle aree urbane francesi la disoccupazione giovanile sfiora il 40%; come in Italia, metà dei neo-assunti “godono” di un contratto temporaneo. Mediamente un terzo di loro passa ad un contatto a tempo indeterminato al termine di questa esperienza; al sesto anno di precariato solo il 55% trova una collocazione fissa.
Ad evitare una generazione di precari si scontrano due ipotesi: quella per cui, togliendo i vincoli al licenziamento, si invoglia l’impresa ad assumere, con quella di origine scandinava che coniuga la flessibilità ad un forte sostegno economico e formativo per il reinserimento del lavoratore espulso. Comunque vada a finire, ricetta liberista o ricetta socialdemocratica, una prospettiva sta divenendo sempre più realistica: posto di lavoro fisso, addio!

Argomenti:   #francia ,        #giovani ,        #lavoro ,        #occupazione ,        #welfare



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