REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno II n° 8 del 27/04/2006 TERZA PAGINA


Visto per voi: Less – Strategie alternative dell’abitare
Un modo per reinterpretare il problema del vivere e dell’abitare
Molteplici le provocazioni come ‘Gli invisibili’: ‘Non si capiscono, ma si ascoltano’. Una frase che può esserne la sintesi
Di Serena Bertogliatti



L’esposizione ti cattura prima che tu possa entrare nella sede espositiva. Camminando per via Palestro, alla ricerca del numero civico, degli altoparlanti ti inglobano senza preavviso nel concept della mostra. Sono sedici voci, i sedici diversi idiomi parlati nella città di Milano riuniti in pochi metri di strada. Anche il più acculturato interprete non può comprenderli tutti, tantomeno il cittadino tipico di questa metropoli, ma come Silvio Wolf ha detto alla conferenza stampa:
Non si capiscono, ma si ascoltano.
Una frase che sembra riassumere in sé sia il ruolo dell’Arte che l’intento di Less, che ha voluto per una volta mettere in mano agli artisti il lavoro che di solito appartiene ad architetti e designers. Artisti che per questo evento hanno sfruttato la propria tensione costruttiva, la tendenza a presentare al pubblico un’ottica alternativa a quella corrente, per fare anziché interpretare; per proporre soluzioni concrete a domande, disagi ed esigenze collettive.

Milano è, in Italia, uno degli spiragli che ci presenta un problema già affrontato dalla maggior parte delle capitali europee: la consistente immigrazione, la nascita di un contesto urbano multiculturale, la crescente necessità di ritrovare uno spazio intimo. Per noi è una questione ancora calda, che offre da un lato un potenziale di scambi culturali enormi, ma dall’altro, quello più pratico e quotidiano, una serie di disagi.

Micheal Rakowitz - paraSITE 1998-in corso. Borse di plastica, tubi in polietilene, ganci, nastro adesivo. Diversi siti urbani a New York, Boston, Cambridge (Massachusetts) e Baltimora Attualmente esposta nell'ambito della mostra Entrati nell’ottica dell’esposizione grazie all’installazione acustica di Silvio Wolf (le mille voci di Soglia delle Parole), siamo nel cortile del PAC, e qui sulla destra ci aspetta la seconda opera. Ai limiti del nostro spazio visivo, mentre noi intenzionato pubblico ci dirigiamo alle porte del padiglione, vediamo questo lungo bozzolo di plastica, la stesso materiale che adoperiamo, spesso usa-e-getta, come sacchetti per fare la spesa.

Gli invisibili, li ha chiamati un programma televisivo: i poveri senza casa la cui casa è la città intera. Siedono ai lati della strada e abbiamo imparato a ignorarli, talvolta a considerarli parassiti del nostro vivere, quelli che si nutrono degli scarti dei ristoranti in cui ceniamo. ParaSITE, si chiama l’opera portata da Michael Rakowitz, ed è creata per dare un’abitazione a chi vive a ridosso della abitazioni altrui, aprendo gli occhi anche sulle persone che vorremmo ignorare in quanto punte dell’iceberg di ciò che nella nostra città non funziona. Costruita con materiale povero, si alimenta grazie al riciclo dell’aria tiepida che esce dagli sfiati esterni dei sistemi di ventilazione degli edifici urbani. Idea troppo bizzarra, troppo inadatta alla solida struttura a cui siamo abituati? È possibile accettare di formalizzare la loro esistenza senza per questo marchiarli con l’accezione negativa del termine “parassita”? ParaSITE è una soluzione pratica, l’idea dell’idea, ma porta in sé il rischio di ufficializzare una scissione tra cittadini viventi in solide mura, e cittadini che delle mura ne hanno la riproduzione precaria. È possibile sviluppare un’ottica con cui adottare la proposta senza dare un’etichetta alle persone per cui è stata ideata?

La risposta sta forse nella filosofia del Situazionismo. Da anni si parla di globalizzazione, ma senza dover ricorrere a questo abusato termine possiamo renderci conto di quanto labile sia ormai la nostra identità geografica, locale e statale, pensando alla facilità degli spostamenti. Le città “risucchiano” persone da secoli, ma nel 2000 è avvenuta una svolta tangibile: la popolazione che abita nelle città ha superato di numero quella che abita negli ambienti rurali.
 Jimmie Durham - Arch de Triumph for Personal Use (Marseille version) </b>  2002 - legno e pittura 230 x110x110 cm - Collezione dell'artista -  Foto di Rainer JordanNon è raro, oggi, perdere il filo del nostro albero genealogico a causa del trasferimento di genitori e nonni. La nostra identità culturale non è più legata al contesto geografico, e di conseguenza il concetto stesso di “casa” diviene un luogo che si sposta con noi. Questo processo porta a un’esagerazione del moderno individualismo o, piuttosto, all’effetto contrario, per cui non esistono più muri a separarci dagli altri?

I muri vengono abbattuti.
Jimmie Durham, con il suo Arch de Triumph for Personal Use. Antimonumentale, antieroico, fatto a misura d’uomo e di labile legno ne dà la sua interpretazione. È quindi finita la ricerca da parte dell’uomo di qualcosa di eterno? L’opera celebra il momento, può essere attraversato solo dal singolo individuo e lo inquadra all’interno di sé stesso. Non c’è la ricerca di un’esasperazione dello stesso, né di un’elevazione a misure disumane. Antiretorico, è una cornice che fa soffermare su qualcosa di forse scontato, già conosciuto: noi stessi. Ora che non esistono più spazi geografici, non più terre in cui cercare il sublime dell’Eden o l’esotico dell’Eldorado, la ricerca spirituale non tende più verso l’esteriorità ma verso l’interiorità.
Lo sottolinea Mircea Cantor con il video realizzato a Tirana, The Landscape is Changing, in cui un gruppo di manifestanti procede in silenzio reggendo non manifesti ma specchi. La città ha bisogno di riflettere su sé stessa. La domanda viene posta tramite il corteo, la risposta è già insita nella metropoli, che non è concetto astratto e scisso dai suoi abitanti, ma è l’aggregazione sociale di tutti i suoi componenti.

Lucy Orta - Body Architecture - Foyer D - 2002    Poliestere spalmato alluminio, 3 armature in alluminio telescopico, lycra Clerprem Solden, vari tessuti, stampa serigrafica, chiusure lampo, 6 armature  510 x 510 x 190 cm foto di J.J. Crance   © Lucy OrtaI muri vengono abbattuti.
Lucy Orta con Body Architecture - Foyer D ce ne parla. I muri sono stati abbattuti, ma in onore della rinascita di una sfera fisica del legame sociale. Il singolo rinasce nella sua unicità in quanto la sua casa diviene una seconda pelle, ma diviene anche modulo relazionabile ai suoi simili.

Pare vi sia una riduzione ai minimi termini, l’esigenza da parte degli artisti di fare un sunto dei valori più importanti, dei principi basilari; un ritorno alle esigenze primordiali, alla ricerca di una tana più che di una casa, nella costruzione di forme che aiutino l’osservatore a capirne la funzionalità. Lo abbiamo visto con ParaSITE, rifugio dalla forma di bozzolo, sembiante quasi organico, e con Body Architecture – Foyer D, in cui il nucleo centrale raccoglie attorno a sé i singoli.
Il significato si trova a coincidere con il significante.
L’Arte offre il proprio lato creativo e innovativo mettendosi a disposizione non solo come idea futuribile ma anche come progetto pratico e funzionale, ripulito dalle elaborazioni estetiche.
Esempio di un perfetto connubio tra sembiante e funzione possiamo vederlo – non potremmo non notarlo, data l’imponenza della sua forma semplice – con TREETENTS, di Dré Wapenaar. Originariamente progettato per un gruppo di attivisti inglesi stanziatisi in una foresta per opporsi alla costruzione di autostrade a discapito dello stesso ambiente naturale, le tende, simbolicamente salvifiche gocce, acqua per le radici, si montano sui tronchi. In questo modo la stessa presenza degli attivisti impedisce l’abbattimento degli alberi. L’abitazione diventa propaggine dell’abitante, manifestazione del suo stile di vita e del suo intento.
Dré Wapenaar - TREETENTS 1998 Struttura in acciaio, copertura in tela,  pavimento di legno / Steel frame, canvas covering, wooden floor - 2,7 x 2,7 x 4 m Veduta complessiva / Panorama  © Foto/Photo Robbert R. Roos © Dré Wapenaar
Non ci sarebbe spazio né modo di parlare di tutti gli artisti che hanno partecipato a questa mostra, e sarebbe oltretutto ingiusto. Il PAC ha offerto il suo spazio – ampio e illuminato, alti vetri e oltre il poco verde che Milano racchiude – mettendo a disposizione prima di tutto un’atmosfera, un microcosmo in cui i rumori di Milano si zittiscono e permettono al visitatore di esserne nel fulcro e al contempo “prendere una boccata d’aria” – e d’Arte.
Less è prima di tutto un evento in cui si ha modo di fermarsi per riflettere, mentre le opere esposte ci scorrono davanti agli occhi.
Sono idee, per ora, strategie alternative dell’abitare, proposte che attendono il nostro beneplacito. L’artista può offrire, proporre, ma è compito – diritto e dovere – del pubblico interiorizzare la proposta, farsene condizionare per poter poi condizionare la città, il mondo, in cui vive e che lo vive. Un’esposizione da visitare, perché ha la magica qualità delle forme semplici: il messaggio arriva direttamente, da occhio a mente, e la riflessione nasce spontanea, piacevolmente.



A Milano dal 5 aprile al 18 giugno 2006
Sede: PAC Padiglione d’arte contemporanea - Via Palestro 14 – 20121 Milano
tel 02 76009085 – fax 02 783330
www.comune.milano.it/pac
Orari: 9.30 – 17.30 martedì, mercoledì e venerdì, giovedì fino alle 21.00, sabato e domenica fino alle 20.00 (orari da confermare) Chiuso il lunedì
Ingresso gratuito



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