REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno II n° 11 del 08/06/2006 TERZA PAGINA


La Cina è vicina: 'speriamo invece resti lontana'
Diario semiserio di alcune autentiche avventure Cinesi – Prima parte
Di Roberto Filippini Fantoni


“La Cina è lontana, fortunati voi che ci andate!”
Dopo anni e anni di viaggi in Cina mi domando quanto la gente creda davvero che l’Eden sia da un’altra parte, non accorgendosi invece che è nel giardino di casa (per chi ha la fortuna di averlo un giardino) o in quello dietro casa.
Per me, ogni volta che debbo partire è un dramma semiserio, una tentazione tra la voglia di fare il mio lavoro e la necessità fisiologica di scansare certi posti, certo cibo, certa sporcizia! Ma il dovere prima di tutto e gambe in spalla!
Oltre tutto questa volta di gambe buone da mettere in spalla ne avevo una sola perché l’altra l’avevo appena rotta con il vizio di giocare a pallacanestro ben conscio (ma non del tutto) di non avere più l’età per farlo. Ma non sono uno che piange sui propri acciacchi e così davvero, fuor di metafora, con una gamba in spalla - quella rotta - mi accinsi al solito viaggio.

Sette ore di fuso orario da digerire al più presto per non rischiare di addormentarmi davanti al cliente non sono poche ma come sempre ci si prova.
Quella volta il viaggio fu davvero brevissimo (1 settimana) per cui il volo mi apparve meno pesante del solito.

Arrivai a Pechino, visita a un amico – Stefano -, la figlia e la moglie, una delle Cinesi più belle che abbia mai incontrato nei miei viaggi (in genere sono assai critico e refrattario a queste ragazze con gli occhi a mandorla). Alla figlia avevano dato il nome di Barbara, bellissimo nome e con il vantaggio di essere a duplice uso: infatti al di qua della Muraglia diventa subito Balbala data l'impossibilità cinese di pronunciare la erre.

Rapido salto al mercatino per gli acquisti di rito, buoni soprattutto per i prossimi regali natalizi, con la cinesina a tirar giù i prezzi in maniera così pesante che alla fine per concludere la trattativa offrivo io qualcosa di più perché mi vergognavo: sono troppo buono e per questo non riuscirò mai a metter da parte una lira, nemmeno buca.
Un rapido lunch e poi via per cinque ore in macchina - per fortuna su una nuovissima autostrada - per raggiungere Taiyuan.
Pernottamento e discussione sulle potenzialità del gruppo che rappresentavo seguite da un excursus sui tecnopolimeri, settore al quale il cliente sembrava fortemente interessato. Tutto filò liscio come l’olio fino a che non scendemmo nel cortile a riprendere la macchina per il viaggio di ritorno a Pechino.

L’autista non si trovava. Lo si era visto uscire dalla sala riunioni una mezz’oretta prima del termine della discussione, quatto, quatto senza dire nulla a nessuno. Lo cercammo nel building supponendo che fosse andato a fare il chilo dormendo in qualche ufficio, ma le ricerche risultarono vane.
Cominciammo anche a sospettare che fosse andato a farsi un cicchetto di birra o maotai e la cosa ci preoccupò dato che l’avevamo visto sfrecciare a centotrenta all’ora sull’autostrada all’andata e non avremmo voluto che rifacesse il cammino alla stessa velocità ma con troppo alcool in corpo. Quella velocità con tutti quei camion pazzi cinesi non ci avrebbe lasciati molto tranquilli.
I più influenzati dalle telenovelas parlavano già di possibili incontri con amanti del luogo, ma la cosa sembrò troppo romanzata persino per quelli che peccavano di abbondante fantasia. Le ricerche si protrassero per un quarto d’ora e poi io, Stefano, Chiu - l’ingegnere interprete – e Wu Kai – il rappresentante locale – ci trovammo al centro del cortile a tre metri dalla macchina a pensare dove andare a pescare quello scriteriato di un autista.

Stefano, dando un’occhiata dentro l’auto lo vide bello sdraiato a dormire sul sedile dell’auto e con la radio accesa. Sfido che non sentiva i nostri richiami.
Ovviamente ognuno di noi quattro era convinto che gli altri avessero già guardato in macchina e così nessuno l’aveva fatto.
Mi venne in mente quel racconto di Edgard Allan Poe - “La lettera rubata” - in cui un esercito di poliziotti cerca per un mese una lettera compromettente nella casa di un notabile rovistando dappertutto, aprendo sedili, togliendo tappezzeria, senza trovare nulla perché la lettera era lì in bella vista nella busta aperta con la quale era arrivata, solo che il furbissimo proprietario della stessa aveva girato la busta, aveva rimesso dentro la lettera e aveva scritto sopra l’indirizzo della propria casa e non quello del destinatario a cui avrebbe dovuto originariamente essere stata spedita.
Questo disguido avrebbe potuto essere considerato una premonizione di quello che sarebbe arrivato dopo ma è chiaro che potemmo pensarci solo a cose fatte. Ma veniamo a questo “dopo”!

L’autista, come tutti i drivers cinesi, è di quelli che frenano all’ultimo momento quando già sono nel culo della vettura, della moto o della bici che lo precedono e io, un po’ preoccupato, esternai tali mie preoccupazioni a Wu Kai quando eravamo in piena città e dovevamo ancora imboccare l’autostrada.
Wu Kai mi rassicurò: “don’t worry, he is a good driver”. Io, in vena di spirito (macabro) oppure solo per tirarmi su il morale, o meglio per dimenticare le preoccupazioni delle strade cinesi (le precedenti mie esperienze non mi rassicuravano per niente), uscii con l’infelice battuta: “conosco tre “buoni” autisti che però son già morti”. Ilarità generale: non sapevamo cosa c’era in agguato per noi! Scaricammo Wu Kai al suo albergo e noi via verso Pechino.

Solita velocità e solita infilata di camion. Dopo circa un centinaio di chilometri, sulle colline su cui passava l’autostrada, con io appena desto da un piccolo riposino e con Stefano che invece era finalmente riuscito ad assopirsi, ecco il patatrac.
Imboccando una larga curva mentre sorpassavamo due camion, ci trovammo alla testa del secondo proprio quando l’autista dello stesso aveva deciso di uscire per superare il collega che lo precedeva. Gli specchietti retrovisori, così come le frecce direzionali, in Cina sono degli optionals a cui nessuno fa bada tant’è che ci domandavamo per cosa li tengono montati e così, sveglio da poco credetti di essere in un sogno e vidi quel disgraziatissimo camion sbandare sulla sinistra per iniziare il sorpasso con noi li sotto lanciati a oltre cento chilometri orari. Sentii un gran fracasso e capii che non stavo sognando, così come lo capì Stefano che si svegliò di soprassalto e senza sapere cosa stesse succedendo avvertì il forte sbandamento della macchina, il rumore delle lamiere contorte, lo scoppio del pneumatico e l’inchiodata dovuta non ai freni ma alla ruota davanti scoppiata e incastratasi nelle lamiere della carrozzeria. Per fortuna il camion riuscì a passare davanti e così noi salvammo la pellaccia e restammo inchiodati in mezzo alla strada, sulla sinistra della carreggiata, nella corsia di sorpasso. Il camion si fermò cento metri più in là e noi quattro saltammo fuori di corsa con la paura che qualcuno da dietro ci tamponasse.

La Cina è troppo vicina: meglio che stia il più lontano possibile!

L’autista e Chiu corsero a discutere con il camionista mentre io e Stefano ci portammo a cento metri dietro la macchina per evitare che qualcuno arrivando in curva non ci vedesse in tempo e ci venisse “nel culo” ad alta velocità.
Va bene che si dice che una rapida “iniezione “ fa meno male, ma il detto non è adatto a questo caso!
Non vi dico le inchiodate delle macchine in arrivo!

Intanto si tirò fuori il triangolo e mentre io e Chiu andavamo a piazzarlo a cento metri dalla macchina all’esterno della curva così che fosse visibile prima, i due autisti continuavano a discutere e li tenemmo d’occhio perché non iniziassero ad azzuffarsi, sport nazionale da queste parti: ben ricordavo d’aver visto due tizi a Pechino che litigavano avendo cura di tirarsi addosso niente meno che dei cubetti di porfido strappati a mani nude dal selciato. La proverbiale pazienza cinese è ormai rimasta solo nei proverbi. Nel frattempo Stefano s’incamminò lungo il bordo della strada verso la direzione da dove eravamo venuti e si allontanò sempre più. Non capivamo cosa stesse facendo o dove voleva andare. Che lo choc l’avesse messo in sballo e volesse tornare a Taiyuan a piedi? Mal contati saranno stati 130-140 i chilometri che avevamo già percorso. Erano le cinque di sera: non sarebbe mai arrivato da nessuna parte!

Per fortuna dopo cinque minuti lo vedemmo tornare con la triste novella: era andato a guardarsi la segnaletica del chilometraggio dalla quale risultava che eravamo “solo” a 386 km da Pechino, fermi in mezzo alle montagne con un freddo cane e il buio in agguato. Arrivò infatti rapidamente dopo circa mezz’oretta.
Attendemmo fiduciosi qualche macchina della polizia con un occhio preoccupato verso tutti quelli che frenavano rischiando ogni volta un tamponamento. Per sicurezza tirai fuori dal baule posteriore la pilotina con dentro il computer per evitare di vederlo ridotto a pezzi in caso di “crash” (parola di moda in quei giorni e che dovevo assolutamente utilizzare) e la misi al sicuro sotto il guard-rail.

La nostra fiducia nel servizio di pattugliamento delle autostrade cominciò a venir meno quando vedemmo passare due macchine della polizia (una in un senso e l’altra in quello opposto) che non fecero una piega e si allontanarono senza degnarci nemmeno di uno sguardo.
Ci guardammo in faccia attoniti e non sapevamo cosa dire. Il buio si fece sempre più denso. Le nostre speranze cominciarono a riprendere forma quando vedemmo arrivare un carro-gru e ci pentimmo di aver pensato così male dei cinesi.
Io e Stefano ci fregammo le mani non solo per il freddo ma anche per la contentezza di questa rapida soluzione del problema pensando solo se ci avrebbero sistemato sulla macchina trainandoci assieme ad essa oppure se qualcuno avrebbe dovuto aspettare una successiva auto della polizia. Le mani si cominciavano a scaldare! Ritornarono fredde di botto quando vedemmo che i due poliziotti scesi dal camion, dopo aver frettolosamente posto due grossi segnali venti metri dietro la macchina e senza scambiare parola con nessuno, risalirono sul camion e se ne andarono, scomparendo rapidamente all’orizzonte. Ci guardammo tutti e quattro in faccia attoniti, con l’aria ebete di chi era stato appena fregato e non aveva avuto ancora il tempo di rendersene pienamente conto.

La Cina è troppo vicina: meglio che rimanga il più lontano possibile!

Oltre tutto la macchina non si poteva assolutamente spostare da lì perché era inchiodata, ma anche se non lo fosse stata, c’era una rigida legge cinese che non permetteva di toccarla fino all’arrivo della polizia e così non potemmo fare assolutamente nulla.
Incazzati come delle iene cominciammo a pensare male di questi maledetti gialli che tra l’altro non sapevano nemmeno che i segnali andavano messi a cento metri dall’auto altrimenti nel sedere ci sarebbero venuti egualmente perché non li avrebbero visti in tempo utile per frenare.
Il buio era totale perché la luna era appena visibile come piccolo arco: eravamo il giorno dopo la luna nuova. Il freddo cominciava a farsi più pungente ed eravamo abbondantemente sotto lo zero. Io e Stefano eravamo abbastanza ben coperti con guanti e cappello ma gli altri due con giacchettina e senza copricapo cominciavano davvero a non sopportate più il freddo e allora entrarono in macchina e attaccarono motore e riscaldamento. Scelsero di rischiare di morire “tamponati” piuttosto che morire "assiderati"! Ognuno può scegliere la morte che desidera!
Poco prima era passato in senso opposto il carro-gru di prima con a traino un camion in panne e allora avevamo capito perché precedentemente non avevano potuto fermarsi: dovevano recuperare quel camion che era evidentemente già stato loro segnalato. Li fermammo comunque, scavalcando il guard-rail, e Chiu chiese loro come mai non avevano avvertito qualche pattuglia. Candidamente risposero che non avevano radio a bordo per comunicare e che avremmo dovuto aspettare che raggiungessero la prima barriera di pedaggio per telefonare. Li vedemmo ripartire ad una velocità talmente bassa che calcolammo potessero raggiungere la barriera dopo non meno di un’ora! La disperazione era totale.

Io dovevo prendere l’aereo per Shanghai alle otto della mattina seguente ma ormai disperavo di poter arrivare in tempo.
Nell’attesa, io e Stefano per non farci congelare i piedi passeggiamo in su e in giù guardando il cielo stellato. Approfittai per tenere una lezione di astronomia (al lavoro non mi chiamavano per niente “professore”) a Stefano che di quella scienza non sapeva nulla e probabilmente non gliene fregava nemmeno più di tanto ma non sapendo cosa fare e forse per compiacermi fece perfino finta di essere interessato. Tra un pianeta, una stella doppia, una stella a neutroni, un buco nero e il big-bang passò un po’ di tempo; quello che invece non passava era il freddo cane ai piedi!

Chiu uscendo dalla macchina, forse perché si era riscaldato bene il cervello, ebbe una brillantissima idea e ci spiegò come fosse stato inutile star lì in quattro ad aspettare la polizia. Era meglio che noi tre tentassimo un auto-stop: l’idea era buona ma, considerando il numero di persone e il bagaglio appresso, o trovavamo una vettura vuota oppure un autobus oppure........... eravamo a terra.

L’operazione autostop durò parecchio perché nessuno si fermava e potevamo anche capirlo in quanto con quel buio, sperduti tra le montagne, uno non si ferma con tranquillità anche se con la faccia da europei potevano forse ispirare un po’ più di fiducia (o forse proprio il contrario?).
Dopo mezz’ora di inutili tentativi si fermò un gippone ma con un solo posto disponibile: niente da fare!
Passò un altro quarto d’ora e poi Chiu riuscì a placcare un piccolo bus inseguendolo disperatamente in fase di rallentamento; fortunatamente era diretto a Pechino, con quattro inquilini e con una poltroncina dietro libera. Riuscì con un po’ di fatica e con la promessa di “lauta ricompensa” a convincerli a caricare noi, armi e bagagli. Corremmo a prenderli, i bagagli, e lasciammo lì il povero autista con un po’ di rimorso, tant’é che Stefano per non sentirsi troppo in colpa gli lasciò in dote il cappello, quanto mai gradito.

Io e Stefano ci sistemammo sulla poltroncina e Chiu seduto sulla mia valigia che per fortuna era sufficientemente rigida e poteva tenere il peso.
In macchina tre uomini e una donna. I due in seconda fila armeggiavano con due telefonini che continuavano a squillare: anzi squillavano quasi contemporaneamente e i due parlavano insieme. Sospettammo che, miseramente, per farci vedere il loro “stato sociale altolocato” si telefonassero tra di loro a cinquanta centimetri di distanza!

Intanto in questa civiltà del telefonino come contraddizione (la Cina è in tal senso tutta una contraddizione dove ultramoderno e civiltà ante prima guerra mondiale sono fusi assieme in un mixing da pugno in un occhio) nel bus non c’era ombra di un riscaldamento e così gelammo letteralmente per cinque ore: questo fu appunto il tempo necessario a raggiungere Pechino. Considerando il mezzo ce la cavammo a buon mercato con il tempo, anche se rischiammo di capottarci più volte data la pazza velocità alla quale il mezzo stesso veniva lanciato (ben oltre i cento!).

La Cina è troppo vicina: meglio che rimanga il più lontano possibile!

Ma la storia non finisce qui. Cosa accadde poi ve lo racconterò la prossima volta ma non posso esimermi dallo stilare una parte del racconto che ho potuto completare solo al mio rientro in Italia, quando Stefano mi ha ragguagliato sul "dopo" dell'autista lasciato in attesa dell'arrivo della polizia.
Dopo due ore e mezza dalla nostra fuga, il poveraccio, non vedendo l'ombra di una vettura degli agenti, intirizzito da un freddo che era insopportabile già alle 7, figuriamoci alle 10 di sera, non potendo rischiare di restare in macchina al calduccio, decide di sbloccare la ruota davanti - quella del pneumatico esploso - per tentare di spostare la vettura sulla corsia di emergenza. Colmo della sfiga, durante questa manovra è arrivata un auto che ha investito lui, mandandolo all'ospedale, e l'auto che venne completamente distrutta. Nella sfortuna generale gli andò ancora bene essendosela cavata con qualche dente rotto, la faccia un po' ammaccata e forse qualche osso fuori posto!

La Cina è troppo vicina: meglio che rimanga il più lontano possibile!

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