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 Anno II n° 16 del 21/09/2006    -   IL MONDO - cronaca dei nostri tempi



Caporalato, ieri e oggi

Di Giacomo Nigro


Eccezionale, occasionale: ecco due categorie dell’Ufficio comunale di collocamento riguardanti i braccianti agricoli negli anni cinquanta a Ceglie Messapica (i miei nonni, i miei zii, mia madre, mio padre), abituale era già qualcosa di più elitario. Ricordo quei timbri sui libretti della Mutua dei miei parenti, i bambini sono curiosi e quei libretti grigi con gli angoli consumati mi attiravano, ogni casella un anno ed ogni anno una qualifica.
Chi riusciva ad avere quei timbri, perché aveva ottenuto un certo numero di giorni lavorativi “ufficiali”, aveva la fortuna di un’assistenza sanitaria pubblica ed eventualmente un sussidio di disoccupazione. Il problema era cumularle quelle giornate, trovare lavoro era difficile ma trovare un datore di lavoro che denunciasse la temporanea assunzione era raro.
Ogni giorno gli uomini si recavano in Piazza Plebiscito, la piazza principale del paese, dove ad ore prestabilite arrivavano i reclutatori a scegliere la migliore e disponibile manodopera per il lavori di stagione nelle campagne: potatori, mietitori, vendemmiatori e sempre e comunque zappatori. Le donne aspettavano a casa la visita della fattora che conosceva una ad una le lavoratrici disponibili a lavorare in nero senza fiatare per lo scarso salario o per il freddo di novembre, la stagione della raccolta delle olive. Ecco l’ufficio di collocamento, l’agenzia di lavoro interinale del caporalato d’allora, più casalingo a causa dell’arretratezza dei trasporti.

Col passare degli anni e l’arrivo della mobilità privata gli autisti dei pulmini, i caporali, si sono sostituiti a reclutatori e fattore.
L’amico Pino racconta: «Erano i lontani anni settanta. Appena finito il liceo, trovandomi di fronte alla necessità di un lavoro, mi si prospettò la possibilità di lavorare a tagliare l'uva.
Tramite amici mi misi in contatto con la "fattora", termine cegliese per indicare il caporale. Una donna dal carattere autoritario che, avendo bisogno di manodopera mi prese nella squadra.
Ogni mattina la sveglia era alle 2 per prendere il pullman alle 2,30. Caricati in 40 sul mezzo, ci avviavamo con destinazione Putignano, Metaponto o altre zone più lontane per un totale tra andata e ritorno di tre ore di viaggio.
La paga era di 10.000 lire (dovevano essere 15.000, ma 5.000 se le prendeva la fattora) che possono corrispondere a circa 25 euro attuali per un orario che s’aggirava dalle 8 alle 9 ore di lavoro più tre di viaggio.
Quello che allora non capivo era come mai verso l'una del pomeriggio, dopo il frugale pasto a base di pane e companatico, consumato in mezz'ora di tempo, la fattora sceglieva tre o quattro donne sposate e non, purchè di bella presenza, per andare a caricare l'uva nei container. In seguito ho capito la squallida realtà del pegno che erano tenute a pagare le donne per lavorare. Anche perchè, quando c’era realmente da caricare centinaia di casse da 10 chili l’una sui vagoni ferroviari, andavamo noi uomini e vi assicuro che non era una passeggiata.

Con amarezza constato che in 35 anni non è cambiato assolutamente nulla, anzi si sono aggiunte addirittura le percosse per chi si ribella
»

Gli fa eco un giovane: «Il problema del caporalato è una triste realtà che riguarda un po' tutto il mezzogiorno. Avevo sentito parlare di storie imbarazzanti, solo a sentirle sembravano provenire da un'altra era, un'altra epoca.

Il racconto di Pino conferma una realtà tuttora presente in molte cittadine del sud, soprattutto in quelle dove l'economia agricola è preponderante, che trasforma il lavoro nero di buona parte della manodopera locale in colossali ricavi per padroni e malavita.
Siamo nel 2006, e viviamo in Italia, uno dei paesi più industrializzati al mondo: sarà ancora vero? Sentir parlare ancora oggi di eventi del genere fa rabbrividire
».
E ancora: «Una triste, tristissima realtà di miseria e sfruttamento. Una realtà che è nota a molti noi cegliesi, figli e nipoti di generazioni di braccianti e lavoratori a giornata. A volte mi pare di vivere ancora nel mezzogiorno della fine dell'800. Metteremo la parola fine a questa storia indegna?»

Questa sconvolgente realtà riguarda attualmente 150-200mila persone. Sono oggi soprattutto giovani donne ed extracomunitari che sono costretti a lavorare fino a dodici ore al giorno e ad effettuare spostamenti massacranti per pochi spiccioli.

Ecco che nulla di nuovo, ahimè, ci racconta l’inchiesta di Fabrizio Gatti apparsa nei giorni scorsi su l’Espresso che in una settimana da infiltrato tra gli schiavi ha fatto un viaggio al di là di ogni disumana previsione. L'orrore si è propagato e gli immigrati devono sopportare quello che ancora sopportano molti braccianti pugliesi.


Per approfondimenti: http://www.caporalato.it/
Io schiavo in Puglia (L'Espresso)



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