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Anno II n° 18 NOVEMBRE 2006 TERZA PAGINA |
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Venezia – dietro le quinte
Di Serena Bertogliatti
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Andare di minitorcia munita lungo una stretta passerella che percorre la riva Nord dell’Arsenale.
A destra hai le alte pareti di mattoni, spoglie, titaniche – non che sia difficile a qualcosa essere titanico, date le micromisure degli edifici veneziani. Venezia, città magica. Città di calli e di vicoli, acqua rancida e barocchismi e goticismi e storicismi e teatralismi. Venezia è un palco, camminarvi è entrare in scena e dover improvvisare un ruolo. Ogni palco ha delle quinte. A sinistra hai l’acqua. Lisa ti chiede, un paio di volte, se proprio non ci sono cartelli che ne vietano l’accesso. No che non ci sono. Hai cercato con il lanternino (metaforico, stavolta) un modo di fottere gli off limits. Sapevi che non potevano chiudere proprio tutte le porte. Sai che se ne dimenticano sempre una. Stavi camminando per la tua Venezia, quella appena conosciuta, quella tutta da scoprire. Avevi oltrepassato la riva degli Schiavoni, guardavi il mare ambrato all’orizzonte e le case sulla laguna. Poi hai visto ‘qualcosa’. Qualcosa che, tra le mille sorprese di Venezia, è riuscita a catturare il tuo occhio. Una costruzione, mattoni svettanti dall’acqua. Colonne solenni sul canale. “Andiamo lì.” “E’ l’Arsenale.” “Andiamo lì.” Tu e Gianni avete camminato. Hai divorato i passi che ti mancavano per raggiungere l’entrata. Due leoni, a guardia, fissavano stoici la laguna. “Non si può entrare.” ha detto Gianni. “Già.” hai ringhiato tu, leggendo l’eloquente quanto odiata scritta ZONA MILITARE. “Non da questa parte.” Intendiamoci, non stai entrando in territorio militare. No, giri attorno, sul filo del rasoio (metafora azzeccata alla solitaria passerella su cui state camminando) in zone che non sono vietate, ma sono nascoste. Le hai viste oggi, le hai scoperte. (Tue.) Cercando un’entrata alternativa all’Arsenale, uno spioncino su cui qualcuno si fosse dimenticato di inchiodare un Divieto D’Accesso confidando nel fatto che nessun turista sarebbe mai arrivato lì e tutti gli autoctoni non ci sarebbero entrati senza aver bisogno di cartelli. Ti sei infilata nelle calli tenendo d’occhio le mura di mattoni, Gianni dietro di te con tutta la sua pazienza, decisa a provarle tutte, finché davanti ai tuoi occhi non è apparso, di nuovo, il mare – e un sottile ponticello moderno di grate di ferro, che poggiava gli scalini di fianco alle alte e impenetrabili mura. Siete saliti, e avete visto la passerella infinita rasente alle mura. Chissà dove avrebbe portato... Hai finito di percorrere la passerella fino ad arrivare a una fila di case. A destra, spazi abbandonati. A sinistra, l’acqua. In mezzo, le case. Moderne. (A Venezia questa modernità è un po’ profana.) Cemento, infissi di alluminio e tutto il resto. Poi hai percepito, per indizi, che c’era qualcosa che non andava. Che le costruzioni erano quasi perfette (quasi, come tutto a Venezia pare a metà tra abitato e in sistemazione), ma che nei vasi le piante erano morte. Che c’era una crepa lungo un muro. Che, camminando, su una casa c’era un warning. Che una parete era solcata da una sottile crepa. Che l’orto era un po’ troppo selvaggio. Che su un cancello c’era il cartello - attenti al cane - ma dentro non c’era l’ombra di un animale. (Eppure li hai compiuti timorosamente i passi, dopo aver aperto il cancelletto guardinga.) Hai trovato un tavolo disseminato di viti e arnesi fai-da-te. E, davanti, un camino all’aperto al cui interno, miracolosamente salvati dalla pioggia, stavano libri scampati da un piccolo rogo. (Avete presente un luogo appena abbandonato, abbandonato con una certa fretta?) Dovevi tornarci con il buio. Percorri, di nuovo, tutta la passerella. I fari sopra di te, puntati verso il mare, sono accesi. Non tutti. Per alcuni tratti estrai la microtorcia e illumini. Illumini l’erba quando la passerella termina. Illumini la prima casa, quella che oggi pomeriggio hai creduto abitata. Illumini uno scorcio degno di un film horror, alla tua destra – e uno degno di un thriller psicologico, alla tua sinistra. (Speri ardentemente non si rompa d’improvviso l'alta vetrata, oltre cui hai illuminato l'antico magazzino vuoto, per proiettarti contro due cani idrofobi – sarebbe provvidenziale, sia per un film horror che per un thriller psicologico.) Illumini e illumini, e procedi per il sentiero. Sempre più fitto, sempre meno sentiero, con rami sottili quanto ragnatele – sempre più fitte, finché non c’è una rete. E poi, svoltare a destra e guardare l’acqua di notte. Guardare le case abbandonate gettate su una lastra di cemento senza ringhiera. Lo sciabordio veneziano, ma qui nessun autoctono ti vede. Sei sola, tu e Lisa e nessun altro. Vorresti abbracciarla, gesto per sancire che avete appena conquistato un luogo – e non vi uscirà mai più dal cuore, ma non c’è bisogno di dirlo. Hai il vuoto dentro la testa mentre l’adriatico si staglia davanti a te e gli occhi baluginanti dei gatti vi osservano da sotto le travi addossate alle case. Immagini, così, un bambino che gioca a palla sul liscio cemento – la palla rotolare lenta e finire in acqua. Puoi quasi sentire il rumore della plastica schiaffeggiata dalle onde, e poi tutto comincia a svanire. Il bambino si volta verso di te, non parla e ti guarda come se quella palla non fosse mai esistita – o come fosse tua, tua di persona venuta a rompere questo silenzio, la colpa. L’immagine sfoca, lentamente, svanisce dalla retina. Lisa, dietro di te, fa un passo. Nella sua voce il tono è fievole e timoroso come quello riservato a una chiesa. “Andiamo.” Sì, ora potete andare. |
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