La collezionista.
Non la variazione di un titolo famoso, ma la protagonista del primo atto di Normali per forza, sceneggiato da Cesare Ferri.
La collezionista colleziona oggetti usati – sedie e giornali, caffettiere e calendari, dischi e coperte – tutti tesori appartenuti ad altre persone che, gentilmente, glieli hanno regalati. Sono così gentili, le persone, che a volte arrivano interi camion carichi di regali per lei; ed ecco sacchi con dentro peluche, cassetti e stoviglie, foulard e giornali.
A volte capita che le persone le regalino anche avanzi di cibo, ma è solo perché sono gentili e pensano che lei li voglia.
Inutile che suo marito le dica che no, non sono le persone ad essere gentili, è che quel posto è una discarica dove la gente scarica l’immondizia. Inutile, per la collezionista.
E no, no, non è assolutamente vero – come quel burlone invidioso di suo marito dice – che la morte esiste.
Vi sembra logico, che la morte esista?
Che senso avrebbe farci nascere per poi, un giorno, senza motivo, farci morire?
La collezionista raccoglie un calendario da un sacco dell’immondizia e lo attacca in bella vista alla parete, grata.
Lei vuole bene a suo marito, ma proprio non capisce perché si ostini col dire che loro figlio è morto. Non si muore, si sa! Ci si addormenta! Un giorno loro figlio si sveglierà – e allora quante gliene dirà sul fatto che certi brutti scherzi non si fanno – ma non lo capisce che quel folle di suo padre lo crede morto e si dispera?
Il secondo atto spalanca il sipario sull’asettica luce bianca di una casa di cura.
La collezionista siede al bianco tavolino, irriconoscibile nella nuova, “civile”, tenuta.
La collezionista è rinsavita – lo dice, e dice che il dottore le ha promesso che fra poche settimane potrà uscire.
Non vale lo stesso per Carlotta, che non comprende come mai si trovi lì – ma lo sa, in verità lo sa: è quella megera di sua nuora che l’ha fatta spedire in quel posto – e non se ne capacita. Né, con lei, se ne capacitano i suoi due amici invisibili.
Alfonso, d’altro canto, seduto in disparte, non si capacita del perché il mondo lo odi. Ma il mondo lo odia, è chiaro. Perché, altrimenti, ogni volta che faceva una fila qualcuno sorpassava proprio lui? Perché nelle code in auto tutti gli gridavano contro? Perché quando si è, in metropolitana, slogato un piede, nessuno - ma proprio nessuno – lo ha aiutato?
Perché tutti lo odiano, è chiaro.
Matti.
Persone dalla labile percezione della realtà. Persone la cui mente si rifiuta di seguire i comuni percorsi di interpretazione del mondo.
Semplicemente: matti.
Ma la collezionista non è più matta. Ora sa, grazie ai dottori, che non erano le persone a essere gentili, ma lei a essere in una discarica.
Sa che suo figlio è morto. Che tutti muoiono. Che morirà anche lei, e suo marito.
La collezionista è rinsavita, e domanda all’infermiera:«Avete pensato, mentre mi curavate, se sarei stata felice?»
Perché ora non è più matta, ma è infelice.
Conclude, e con questa frase si conclude lo spettacolo, citando:«L’operazione è riuscita perfettamente, ma il paziente è morto.»
Superba interpretazione quella de La Compagnia delle Muse, che può permettersi di portare sul palco un monologo lungo un intero atto senza che il pubblico abbia il tempo di annoiarsi.
Quando, seduti sulle poltroncine, si osserva lo spettacolo iniziare, si ha la rassicurante impressione di essere nelle mani giuste.
Esasperati applausi per Emanuela Soffiantini nei panni della Collezionista, indubbia protagonista, e niente di meno si può dire sui ruoli secondari, interpretati da attori che sono riusciti a rendere unici tutti i comprimari.
Il soggetto è di Cesare Ferri, laurea in filosofia e diversi romanzi alle spalle.
Al termine dello spettacolo ho sentito la necessità di discutere con lui riguardo al messaggio di Normali per forza perché, come gli ho detto, vi leggevo una critica ben articolata – a partire dall’oppressiva tendenza all’omogeneità chiamata “salute mentale”, fino ad arrivare alle piccole ingiustizie che fomentiamo nel quotidiano.
Ma, gli ho domandato, c’è una soluzione posteriore alla critica?
Alla fine del primo atto, il dissacrante primo atto che aveva voluto ledere ogni certezza dello spettatore, la sala vuota era ricolma del fumo che la collezionista aveva causato bruciando carta nel bidone.
Ora che le false certezze sono state bruciate, cosa rimane oltre al fumo delle macerie?
Ferri ha premesso una sua certa tendenza all’esistenzialismo, non quindi propensa a elargire pillole dolcificanti per ammorbidire i lati amari del mondo, e ha parlato di consapevolezza.
Lui è, dice, solo un fotografo, che non ha l’arroganza di porre soluzioni.
La consapevolezza è il primo passo per giungere a un nichilismo attivo – consapevole, appunto.
Quello a cui questa coscienza potrà portare è sotto la giurisdizione dei posteri – nel frattempo, assistere a Normali per forza è sicuramente un consistente spunto di riflessione.
lo spettacolo il 16 dicembre verrà rappresentato al Vittoriale
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