REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno III n° 1 GENNAIO 2007 IL MONDO - cronaca dei nostri tempi


Videogames – pro e contro
Di Serena Bertogliatti


Videogames. Ossia: giochi a video.
Ossia: tema costantemente in dibattito, sia tra chi in prima persona ne fa uso – e si scambia curiosità e novità – sia tra chi discute invece di quanto siano educativi o quanto invece fuorvianti.
Il gioco nasce quale emulazione della realtà. Che si tratti di un semplice gioco infantile, privo di regole se non delle più basilari (e sempre in emulazione delle regole generali vigenti nel mondo degli adulti), o che si tratti di un gioco complesso dal pubblico adulto, il gioco nasce come microcosmo delle dinamiche del mondo.
Il gioco è, proprio per i suoi natali, educativo – o diseducativo, ma sicuramente non ininfluente.
È oltretutto, per tutte le età, un’occasione di interazione umana. Anche i videogames, tacciati di alienare il giocatore in solitaria davanti allo schermo di un computer, si sono infine adeguati al generale desiderio di condivisione servendosi di Internet, facendo nascere i giochi di ruolo online, i MMORPG (Massive(ly) Multiplayer Online Role-Playing Game), i deathmach, etc.

La critica più aspra che spesso viene portata, e così anche ai film, riguarda la violenza di alcuni videogames.
Secondo una vecchia (vecchia perlomeno considerando da quanto esistono i videogames) tradizione, uno sparatutto offre al giocatore la scelta: quanto sangue vuoi vedere?. Si può optare per un partita edulcorata, in cui un colpo di fucile causa un gran fracasso ma lo stesso quantitativo di sangue di una fiaba di Andersen; si può optare per un quantitativo di litri per corpo realistico; si può optare per personaggi antagonisti più simili a sacche di plasma che a essere umani, e che non appena colpiti inondano lo schermo di chiazze rosse.
Potrebbe essere una tutela per il giocatore, un modo per il genitore di selezionare la modalità più adatta all’età e alla maturità del figlio.
La verità è che la maggior parte dei giocatori minorenni delle ultime generazioni hanno avuto genitori a malapena capaci di accendere un computer – o collegare la console al televisore – ed è questo uno dei maggiori intralci alla buona educazione: per offrire una buona educazione, o una qualsivoglia educazione, bisogna prima di tutto educare. Per educare bisogna conoscere. Esiste una regolamentazione della vendita del prodotto, che fa sì che un prodotto considerato inadatto ai minori rechi in copertina la scritta: V.M. 18. O: Parental advisory. Una serie di avvertenze che dovrebbe regolamentarne la diffusione.
Questa regolamentazione è un’astrazione.
Il minore che vuole assolutamente provare il nuovo videogames appena uscito sul mercato troverà comunque il modo di recuperarlo.

Il fulcro della diseducazione nei videogames non è la quantità di fluidi corporei versati da corpi morenti, ma la morale.
Perché un videogioco sia un gioco, e non la realtà, il fattore morte (e tutti i suoi campi d’azione) diviene al massimo una seccatura, che costringe chi gioca a riprendere la sessione partendo dall’ultimo salvataggio. Questa dinamica è presente in tutti i giochi, virtuali o non (o tutti i giocatori di scacchi dovrebbero morire alla prima partita persa), ma nei videogames viene amplificata dal fatto che l’immedesimazione è molto più forte. Se antecedentemente alla comparsa di personal computer e consoles era la fantasia il grande motore ludico, oggi è possibile essere sgravati di gran parte del lavoro grazie a immagini sullo schermo e suoni nelle cuffie. Facilmente comprensibile quanto possa essere molto più coinvolgente sentire veramente la deflagrazione di una bomba anziché doverla immaginare o riprodurre a versi. E così è fatalmente più catartico vedere una distesa di corpi abbattuta per merito della nostra abilità anziché una distesa di birilli.

I videogames lavorano sulla convinzione che danno del Fattore Realtà.
I videogames in Rete, soprattutto i giochi di ruolo che riproducono non solo una realtà visiva e uditiva ma anche una verosimile realtà d’interazione tra personaggi/persone, tendono alla creazione di un universo parallelo che, idealmente nella mente del fruitore, dovrebbe ricreare ogni dinamica della RealLife – fermo restando che, a differenza della RealLife, morte e mortificazione, sconfitta e fatica, debbano restare virtuali.
Questo permette alla realtà virtuale di divenire una realtà ideale – in cui i processi causa-effetto, per quanto tradotti in codici e calcoli che riempiono megabyte e megabyte di memoria, saranno sempre e comunque semplificati rispetto ai processi causa-effetto della vita reale, incomprensibili alle persone stesse che la vivono.
Alla base di un videogame c’è una logica. Corretta o scorretta che sia, c’è un sistema creato e programmato che delimita la catena delle dinamiche.
Questo rende il gioco non più un’emulazione ma una sostituzione, superficialmente auspicabile, della realtà quotidiana.

Magazine ha già parlato della computer addiction, ossia della dipendenza psichica, così definita in termini medici, e di come in Italia 9 ragazzi su 10 vivano in un mondo in cui cellulari, console, PC – insomma, ogni genere di computatori che siano più complicati di una calcolatrice da tavolo – siano “requisiti minimi di sistema”.
Non siamo agli albori di una nuova era tecnologica: ci siamo dentro. Non possiamo farne a meno, a livello patologico.
I dati virtuali regolamentano la nostra vita, dagli archivi anagrafici ai decessi, passando per il lavoro e l’informazione, lo studio e, caso in nostra analisi, il gioco.

Sarebbe troppo semplice liquidare la questione dicendo che i videogames sono diseducativi e quindi da eliminare. Significherebbe eliminare la stessa, crescente base, che regolamenta il nostro sistema – perché i videogames altro non sono che la sezione che porta il nome “gioco” e che è contenuta nello stesso ipotetico database grazie a cui gestiamo mille altri lati della quotidianità.
Oltretutto, il potenziale che portano con sé è immenso. Pur di accedere ad alcuni giochi il cui linguaggio di comunicazione prioritario è l’inglese, ragazzi imparano questa lingua. La imparano per poter leggere articoli e trucchi, e quanto necessario ad approfondire la loro passione.
C’è chi, tramite i videogames, si ritrova ad appassionarsi alla stessa programmazione, o intreccia rapporti ludici on-line che poi vengono traslati sul piano reale delle conoscenze interpersonali.
Il potenziale è immenso.
La qualità, sia educativa o diseducativa, non dipende dal prodotto ma dal fruitore.
Una mente capace di gestire le informazioni in entrata sa discernere il gioco dalla realtà; perché ciò sia possibile va educata a saperlo fare.
Perché sia educata servono degli educatori, ed è educatore per un bambino la presenza che più gli sta vicino.
Troppo spesso, forse, la presenza che più gli sta vicino – non mediata, non contestualizzata, non spiegata – è la postazione di gioco.

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