La Festa dei Folli, in cui ognuno è l’esatto opposto di ciò che è.
E, al contempo, non è assolutamente nessuno.
Puoi ritrovarti a inseguire una maschera tra le calli veneziane, intravista tra migliaia in Piazza San Marco.
Tra milioni.
È apparsa alla guida di una parata di bautte, con i loro visi bianchi e adunchi, paramenti neri e indistinguibili le une dalle altre. Ti è parso un esercito trionfante che entrava in patria.
Sono apparse sciamanti, fuoriuscendo da Palazzo Ducale – non hai potuto fare a meno, per un attimo, di pensarle i Dogi che riemersi dalla tomba delle memoria si sono coperti per visitare la loro Venezia.
A guidarle c’era un sorriso, esasperato, modellato dalla cartapesta. Il vermiglio di quel ghigno sardonico ti ha parlato.
(Una maschera non fa guardare ciò che ha sotto, ma può guardarti dritto negli occhi.)
Le tonalità di rosso di una bocca immota hanno avuto più sfumature di mille espressioni – la maschera ha, delle statue, la ieraticità: ella non può errare. Che sia crucciata, o arcigna, o incaponita, o ancora grottesca o irata, o che ti rivolga un sorriso, ella ha ragione.
Più di tutte ha ragione la bautta, che tu indossi.
La bautta Signora di tutti i travestimenti, perché eguale per tutti e da tutti indossabile. Da te, dal tuo peggiore nemico, dal Doge.
Un volto sul tuo volto cela gli intenti, e ti rende incognita tra le incognite.
Non sai chi sia sotto alla Maschera che Ride, ma l’hai seguita. Potrebbe essere il Doge o il tuo peggior nemico.
Potresti essere tu, perso in un gioco di specchi.
Per questo ti è difficile capire, all’ennesimo ponte attraversato per l’ennesima volta, chi stia inseguendo chi.
Vedi la Maschera che Ride svanire oltre a un portico, corri e ti trovi al cospetto di una vera da pozzo. Due Pulcinella si voltano, e il volto di una pantera ti passa davanti – dietro appare una dama settecentesca con ali di farfalla di stoffa che le coprono occhi e naso, mentre al suo fianco due volti atteggiati a eterno stupore si bisbigliano qualcosa – e quando ti volti, ti rendi conto che la Maschera che Ride è ora dietro di te, e sei tu ora che corri ridendo e seminandola.
Ho visto, nella vetrina di una bottega veneziana, maschere e maschere osservarmi.
Non so se sia stato volere del commerciante, o se la colpa sia da attribuire al Caso, ma stavano tutte puntando le orbite vuote nella mia direzione.
È stato come sfidare lo sguardo della Sfinge, e scoprirvi il riflesso del mio.
Ho visto Me ridente invitarmi alla gioia, Me piangente mostrare il dolore senza pudore.
Me irata mi ha accusato, ciecamente, e ciechi erano i suoi occhi vuoti. Vuota la bocca, spalancata, un Eolo che anziché soffiare venti risucchia buone intenzioni.
Me accigliata mi guardava, intanto, e ho letto quanto fragile sia lo stupore.
Me Solare e Me Lunare si sono contese la mia attenzione, mentre Me che Ride ha riso, di tutto, di tutte le altre maschere mentre guardandomi dritta negli occhi piegava il chiaroscuro delle proprie labbra, sussurrandomi qualcosa.
Ho indossato una Me priva d’espressione, e ho guardato chi guardava nella mia direzione non potendo vedere altro che una maschera celare una sconosciuta.
Solo allora, perdendo ogni espressione esteriore, mi sono guardata dentro – e dentro a tutti coloro che indossano maschere – e ho visto.
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