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Anno III n° 4 APRILE 2007 MISCELLANEA |
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Diario di viaggio a quattro mani
Una giornata a Clusone
L’occasione: visitare la mostra di Giovagnoli. Ma Clusone è una città molto bella da vedere ed interessante
Di Serena e Gianni
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Il paesaggio oltre la portafinestra è soffice.
La primavera è passata per la Valle Seriana, ha seminato, è partita promettendo che sarebbe tornata e ha lasciato Clusone al soffio di un inverno che tenace si aggrappa alla cima degli alberi.
L’automobile parte, l’Hotel Garden custodisce il piccolo bagaglio che ci siamo portati. Gianni guida per il breve tratto che ci separa dalla città, e le uniche cose che ci pesano addosso sono le macchine fotografiche. Tre, per due persone. Temiamo possa sfuggirci qualcosa? Clusone è una piccolissima città di montagna, casette ammassate nel centro storico dominate dalla Basilica addossata alla roccia della montagna. Clusone famosa per l’orologio astronomico, per la danza macabra e per il trionfo della morte, temi artistici medievali germinati da centellinate spore in tutta Europa – e in tutta l’Europa proprio qui si trovano entrambe. Parcheggiamo, le macchine fotografiche vengono estratte e comincia la passeggiata. L’occhio con cui guardiamo le strette vie, i vicoli arrampicati sul pendio, le case da cui sbocciano con nonchalance affreschi d’epoca, è l’occhio dell’obiettivo. Inquadro un porticato, vi cerco la prospettiva ideale, focalizzo sul particolare a cui chiedo di spiegarmi l’anima di questo luogo – e scatto. Ogni scatto è un’interrogazione, un occhio spalancato e un domandare senza pudore a Clusone di dispiegarsi e farsi comprendere. Stradine strette che risalgono le balze della montagna, il clivio su cui è costruita la città, e forse da cui trae il nome che in origine era clisone. Quasi da duemila anni controlla i traffici delle vallate, a fianco della via che delimita la piana dovevano esserci le case di chi lavorava la terre e degli artigiani, poi sulla seconda balza le case dei ricchi signori ed in fine sull’ultima balza il centro di comando con il palazzo del podestà, in fine su tutto la chiesa che dall’alto domina la città. Di traverso al corso della balza, come negli abitati degli antichi porti, calli strette e ripide risalgono e collegano velocemente vari livelli. Mentre si sale si notano le differenze di ricchezza delle abitazioni. Appaiono portoni nobili molto belli e sempre più mentre si sale. Infine la piazza non molto larga e lunga tutto il palazzo del podestà con porticati e le facciate ricoperte di affreschi che fanno testimonianza della lunga storia di questo luogo. Che strano, con Serena questa volta non ci impalliamo a vicenda nelle foto. Percorsa la piazza prendiamo a destra la strada che sale verso il Duomo, lì c’è la mostra che siamo venuti a vedere: Legàmi di Luca Giovagnoli. “Eccoci.” dice Gianni, e io vedo una scalinata snodarsi ripida nell’imponente muro bianco che stiamo costeggiando. Salgo, ma prima di salire mi apposto accucciata per cercare la giusta angolazione da cui ritrarre l’imponenza che per un attimo ho percepito. Salendo – macchina fotografica in mano tenuta stretta, come se dovesse passare da un momento all’altro un particolare da cogliere al volo – vedo le statue, e poi le colonne, e poi la Basilica di Santa Maria Assunta. Pausa, e trattenere il respiro – perché, chiunque l’abbia edificata, ha rispettato appieno il volere del barocco: stupire, e io senza fiato corro da un angolo all’altro cercando di ritrarla per come la vedo, bianco edificio dal cui colonnato, voltandosi, si riesce ad abbracciare con l’occhio l’intera Clusone. Di fianco, silente, multicolore su una parete, la famosa danza macabra osserva me osservatrice. Dai sbrighiamoci, che la mostra ci aspetta... deve essere là in fondo l’entrata.” Mi dirigo verso un cancello aperto; oltre il cancello c’è un porta illuminata sul fondo della piazzetta, non mi guardo intorno e vado deciso in quella direzione, ma quando arrivo vicino mi accorgo che quella non può essere l’entrata della mostra. Infatti, sono i “servizi”, belli, nuovi e puliti, ma non sono una mostra di pittura. Mi giro e vedo Serena che, superato lo shock della visione della danza macabra sta passando anche lei il cancello e vedo in un angolo una enorme sedia con due vasi rossi appoggiati sul sedile. Mi dico: “ecco l’ingresso.” L’entrata al locale della mostra è un fascio di luce che viene dall’alto – la vetrata posta sul soffitto, che rende questo spazio ancor più ampio e radioso: pareti bianche e pulite, una scala che si snoda fino al primo piano e io che osservo il cielo inclinando il collo mentre la curatrice della mostra, Franca Pezzoli, ci dà con estrema gentilezza le informazioni necessarie. Parla ancora mentre ci guida, su sua offerta, per il percorso da lei creato per la disposizione di tutte le opere di Luca Giovagnoli, l’artista. Camminiamo seguendola per quest’architettura da poco restaurata – l’Oratorio dei disciplini, che strano pensare che questo spazioso luogo fosse ciò che fosse – e che fosse poi divenuto un carcere, mentre ora dà questa assoluta sensazione di riposo e fresca brezza benché non un filo di vento spiri. Le grandi tele di Giovagnoli sono squarci di paesaggi marittimi in queste caverne montane: sono cartoline, giganti, ricordi impressi di un’infanzia – l’eterna vacanza che l’infanzia è, perché sono i momenti velati di libertà quelli che si ricordano – tra spiagge e foto di famiglia, monumenti e un indefinito orizzonte in cui cielo e terra si mescolano. Giro due, tre volte per la mostra. Gli affreschi sacri mi osservano con i loro occhi vecchi secoli mentre io assottiglio i miei, mi chino sulle tele ripercorrendo i solchi che disegnano le svettanti architetture solitarie, cercando il senso dei soggetti che, in primo piano, sembrano ritagli di giornali trovati in un cassetto e apparsi solo per un attimo nel paesaggio. È quell’attimo che l’artista ha ritratto. Iniziamo a vistare la mostra, è interessante vedere queste tele grandi, enormi, ma semplici nella struttura pittorica che occupano gli spazi vuoti,lineari e essenziali dell’oratorio dei disciplini . I “ricordi” frammenti nella pittura si sovrappongono ai ricordi dell’architettura, degli affreschi che affiorano, delle pietre che decorano. Antico e moderno non litigano, ma si integrano. Ho sentito una interessante spiegazione fatta dall’Assessore alla Cultura di Clusone di quanto c’è nella cappella dei disciplini. Aspetto che sia libero e mi presento, spiego che vorrei scrivere su Clusone... Subito si mette a nostra disposizione, chiamo Serena. Così l’Assessore ci spiega la storia della Città, dell’oratorio, ci mostra i particolari interessanti di questo fabbricato, che, come tutti il luoghi che hanno una lunga storia vissuta, ha sovrapposizioni di edifici e di usi. Ci racconta che tra i vari usi a cui è stato adibito ci sono anche quello di prigione e di lazzaretto. Il quarto giro è in compagnia dell’assessore alla cultura, a cui subito dico della mia passione per la storia – che pare essere anche la sua, e difatti ci guida con piacere all’interno dell’oratorio, ignorando questa volta le tele per parlarci delle mura, delle fondamenta della struttura originaria, di come quel pozzo, in quella nicchia, servisse per colare la cera; di come il ventre di quella statua della Madonna, visibilmente mancante, sia stato sottratto alla gravida donna perché ritenuto sconveniente a seguito del Concilio di Trento; di come da questa grata al primo piano le donne guardassero i flagellanti fare penitenza, chinate per poter osservare. Di come Clusone abbia orchestrato trame per avere la propria indipendenza di città montana, sita su un crocevia. Sapevo che da sempre Clusone è stata la Capitale della Valle Seriana. È in un pianoro al centro della confluenza dei due rami della Valla Seriana, quello della Val Bondione e quello che porta al Passo della Presolana e scende nella quasi dolomitica Valle di Scalve. Le bellezze naturali in queste valli sono tantissime, ma Clusone si configura essenzialmente come una città industriale e commerciale, come lo è stata anche nel passato. Infatti da Clusone si può scendere verso Lovere dalla Val Borlezza o verso Bergamo dalla valle Seriana e quindi è stato il centro di confluenza dei traffici e della civiltà della valle. Nel passato sono state importanti le attività minerarie, ferro e anche altri minerali con la loro lavorazione. I valligiani sono sempre stati indipendenti dalla città di Bergamo, specialmente quando vi era il dominio visconteo e sono passati sotto la Repubblica Veneta prima di Bergamo. Con la venuta di Napoleone hanno resistito fino all’ultimo momento prima di capitolare. La danza macabra ci saluta all'uscita come all'entrata, ma ora non c'è più la fretta a frenarci, e mi soffermo come ci si sofferma su quegli inquietanti particolari che sai per logica non vorresti poi ricordare, ma proprio non riesci a non cercare di farli tuoi. Guardo i teschi danzare e una morte in trionfo regina su tutti, re e popolani, santi e peccatori - santa peccatrice che falcia senza remore. Ripercorrendo le ripide viuzze di Clusone non posso che vederle che in ottica diversa. È come se, conoscendone a tratti la storia, avendone la consapevolezza, riuscissi a vedere la città antica riaffiorare dalle testimonianze rimaste. Immagino una notte del 1630, le campane d’allarme suonate per un fraintendimento, le porte dai battenti decorati aprirsi all’unisono e le famiglie sciamare fuori in vista del nemico. L’unico nemico, però, è la peste – e dall’edificio posto poco fuori dalla città i soldati in quarantena si riversano per le vie, diffondendo il morbo. Guardo gli affreschi sulle case antiche, quelli per cui l’assessore ha definito Clusone “la città dipinta”, e penso a quale foga questo luogo si sia accompagnato nei secoli, donando oggi una se stessa all’apparenza quasi ingenua, mite luogo in cui ospitare miti tele marittime. Usciamo dalla mostra al duomo, e ripercorriamo la strada verso il palazzo del Podestà con un’altra consapevolezza di quei luoghi antichi. Ora dobbiamo raggiungere l’Atelier di Franca Pezzoli, dove sono esposti i quadri realizzati apposta da Giovagnoli per questo evento. Abbiamo tempo ed è bello passeggiare per la “Via Mazzini”, guardare le vetrine dei negozi e inventarci storie fantastiche o raccontare cose passate, poi una sosta seduti ad un Caffè a guardare la gente che passeggia. L’atmosfera che si vive qui è strana e facilita l’invenzione, sarà che tutto è ordinato e pulito, che l’antico si sovrappone senza stridere all’oggi, un’armonia che è difficile trovare nelle nostre città. Riprendiamo il cammino verso il vicino atelier che è alla fine della Via Mazzini, quasi all’incrocio con la statale. Il luogo è piccolo rispetto allo spazioso oratorio, e qui prendono posto opere più recenti e di più modeste in dimensioni. Ciò nonostante, strana ironia, è nella sala più piccola, sulla parete meno in vista, che vedo la tela che più mi colpisce. Vira al viola e a una nostalgia che pare salutarmi. Salutiamo, dunque. Un paio di domande da rivolgere all'artista - giusto due, per chiudere il cerchio di conoscenza delle sue creazioni, e domandargli del perché di quelle svettanti architetture galleggianti sull'orizzonte sfumato, che riescono ad attirare la mia attenzione molto più delle figure in primo piano, così statiche. Solo un paio di domande, sulla tecnica utilizzata e su quelle generali curiosità a cui solo l'artista pur rispondere. I saluti, poi. “Non lo invidio. Non invidio gli artisti alle proprie mostre.” è ciò che dico a Gianni mentre ci dirigiamo all'uscita, cataloghi in mano. Ripercorriamo la via principale di Clusone. Serena si accende la sua sigaretta, io ammiro questa città visiva e calda in mezzo alle montagne delle Prealpi Orobie. Raggiungiamo l’auto un poco tempo e imbocchiamo la via verso L’Hotel Garden dove, dopo esserci rinfrescati nelle nostre stanze, potremo sicuramente gustare un’ottima cena presso il Ristorante annesso. Chiusa la porta della camera sospiro rilassata vedendo la mia espressione riposata allo specchio. Gianni mi ha detto: “Ti voglio vestita come una principessa.” Ho deciso di reggere il gioco, e la maglia che indosso ha i colori pastello della camera, rosata come le mie guance compiaciute da una giornata d’aria sana. Eccola che scende dall’ampia scala a spirale. È veramente bellissima con la camicetta rosa e i pantaloni neri che fanno risaltare il suo corpo sinuoso, sono fortunato ad avere una compagna di viaggio così bella ed intelligente. Ci accomodiamo ad un tavolo della sala ristorante ed il cameriere prende velocemente le ordinazioni. Intanto facciamo il punto sulla giornata e progettiamo per domani un'escursione nelle pinete di Gromo. Quando arriva nel ristorante anche il pittore Giovagnoli, vedo gli occhi di Serena accendersi di una luce strana. Non capisco se di ammirazione per il bell’uomo o di interesse per meglio conoscere come opera la sua mente di artista. È inevitabile che si incominci a parlare e la cena si svolge con il dovuto quantitativo di public relations. Gianni è una riserva di curiosità, io amo il suono della mia voce e delle risate altrui, e il vino che accompagna i piatti leggeri ma gustosi dà quel tocco finale al tutto. Quando anche il giro caffé è passato - e io, come al solito, mi sono riservata un americano da sorseggiare zuccherato - la sala si dirada. Non ho articoli da scrivere, non politically correct recensioni - ma ho un fido taccuino di viaggio che porto sempre con me, e lì vorrei una dedica da parte dell’artista, da aggiungersi ai ricordi che mi porto appresso. Viene un giro da me offerto - oh, amo offrire da bere - a Gianni e a Giovagnoli. Vengono altre battute, i primi accenni di discussioni sull'arte - rilassate discussioni, lontane dai riflettori. Poi viene, immancabile per me, la pausa sigaretta. Giovagnoli tra le dita stringe un sigaro, ed è fuori dall'hotel che consumiamo i masochistici vizi di tabacco, continuando a parlare. A parlare. A parlare. I politically correct vadano in fumo assieme al tabacco, e venga a me l'unicità di poter parlare di arte, vita e comunicazione in una quieta città di montagna con un romagnolo appassionato di mare e ricordi; vengano i racconti di vita - delle mie aspirazioni, delle sue esperienze; delle esperienze che sto facendo, delle aspirazioni con cui ha intrapreso la carriera; venga il comunicare, al di là dell'arte su tela o tramite parole, di chi si è e cosa si vuole, cosa si ama, e quanto valga la pena di vivere la vita che si vive quando ci si ritrova, una sera in una città orgogliosa e gelosa della propria indipendenza, pensando che - a proposito delle solitudini esistenziali intraviste nelle tele di un pittore - non si è soli. |
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