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Siamo il paese dei taroccati Caccia alla firma a basso prezzo e il falso dilaga, ma non sempre vuol dire scarsa qualità Di Natascia Zanon
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Con un recente comunicato stampa, la Confesercenti afferma di aver stimato che il volume d’affari della contraffazione in Italia è di 7 miliardi di euro.
Una vera e propria rete di produzione e commercializzazione di prodotti contraffatti in Italia che non sono poi di così bassa qualità, e che vanno ad accompagnarsi ai prodotti proveniente dalla “Signora della Contraffazione”, la Cina. In questo mercato ormai sempre più vasto e solido e si è creato un sistema commerciale ed industriale così ben organizzato da avere ripercussioni gravi sull’immagine internazionale del nostro Paese all’estero, ma soprattutto sulla nostra realtà economica già così incerta. La contraffazione raggiunge picchi talmente alti di guadagno da essersi sviluppata in tantissimi settori, dall’abbigliamento all’elettronica, nonché al cibo e ai farmaci. Avete mai immaginato di mangiare una mozzarella di bufala che di ‘bufala’ ha solo il prezzo? Per non parlare del viagra, anche questo contraffatto, che di blu lascia solo il colorito dei consumatori che lo assumono. Insomma, siamo un paese di truffati. Basti pensare alla ragguardevole cifra di 15 milioni di cittadini raggirati e ben spennati da maghi, astrologi, offerte telematiche. Ma siamo proprio sicuri di essere inconsapevolmente vittime e quindi incosciente linfa vitale di tale sistema? Si pensi ad esempio al settore dell’elettronica in cui si scaricano illegalmente musica e film sul proprio computer, e di come gli stessi si possano comprare ad un prezzo stracciato da un venditore ambulante in qualche viuzza secondaria di un qualsiasi centro città. La qualità è buona, se non sempre eccellente. Così, contenti del nostro affare e di aver risparmiato un bel po’ di euro, se pur coscienti dell’atto illegale in sé, siamo pronti a fruire del nostro acquisto senza nessun senso di colpa. Ma non stiamo consapevolmente alimentando il mercato “del falso”? L’abbigliamento è il settore che più è soggetto alla contraffazione. I marchi “Made in Italy” campeggiano nella lista degli imitati, tutto ciò che porta un marchio o un simbolo può e viene falsificato. La contraffazione la troviamo di tutti i possibili oggetti, dall’orologio alla borsetta, passando per le cinture, giubbotti, occhiali da sole, scarpe ed intimo. Insomma, all’appello dell’inventario non manca proprio nulla. Questi prodotti ‘taroccati’ sono troppo spesso uguali a quelli originali. Infatti negli ultimi trent’anni troppi marchi sono passati dall’essere sinonimo di qualità del prodotto all'essere solamente segnale della capacità d’acquisto e basta. L’importanza non è più la qualità del prodotto in sé, il modo e la precisione con cui è stato realizzato, ma la possibilità di lanciare un segnale che deve essere visto dalla persone che incontrano colui che lo indossa. Il marchio diventa così un simbolo da esporre in qualsiasi momento, “non importa chi sono ma cosa vesto”. Il logo diventa fondamentale come biglietto visivo di presentazione della persona. E qui urge una riflessione sull’importanza del marchio come fenomeno di riconoscimento da parte della società, come status symbol, come risposta al desiderio di far sapere a tutti di avere diritto di appartenere ad una determinata classe sociale. L’aspetto esterno del prodotto di marca diventa quindi la parte più importante, se non l’unica, la qualità costa e quindi diviene automaticamente un segnale che permette di individuare il reddito della persona. Quindi il consumatore decide di voler comperare il marchio di vestiario o simili contraffatto, per essere riconosciuto socialmente, magari con l’intento di appartenere ad una classe sociale agiata, magari in cui è da poco arrivato o che è superiore alla sua capacità reale. Il marchio diviene comunicazione sociale, mezzo per aggregarsi e per sentirsi parte della società consumistica. Parafrasando Bacone si può dire: “Io sono... se vesto”. Questo incipit che colpisce sia bambini che adulti, passa immancabilmente per gli adolescenti incerti che vedono nel marchio la propria auto-affermazione nella società. Si buon ben capire come la contraffazione diventi, se pur reato, un passaggio obbligato per tutte quelle persone che vogliono riconoscersi nella società, ma che non possono affrontare le spesse esorbitanti di un “vero” capo firmato, e così entra in scena la finzione. La merce contraffatta in sé non ha nulla di che invidiare alla vera, solo in pochi casi si parla di differenze sostanziali grazie a cui si può riconoscere il prodotto vero da quello contraffatto. L’industria del falso si impegna sempre più per rendere i propri capi ‘simili’ in tutto a quelli veri anche nella qualità. Si avvale di punti vendita compiacenti, ambulanti di solito extracomunitari pronti al rischio di essere scoperti dalle forze dell’ordine, per non parlare dell’ampio successo della vendita telematica. Purtroppo anche i “negozianti” a volte non disdegnano di vendere per buona la merce taroccata. In fondo il consumatore che compra un abito o un qualsiasi oggetto falso, ad occhio nudo non vede e non può notare le differenze dall’originale che sempre più spesso sono impercettibili. Nella cultura odierna l’importante è possedere il logo, la firma, che sarebbe per la maggior parte di noi inaccessibile per l’elevato costo. Lanciamo messaggi di riconoscimento, sogniamo di appartenere magari ad un’elite sociale che si può permettere di spendere molto e come loro indossiamo abiti e griffe uguali. In un mondo di apparenza, ognuno sogna come può... magari in modo taroccato. Argomenti: #abbigliamento , #commercio , #comunicazione , #confesercenti , #contraffazione , #economia , #extracomunitari , #oggetti firmati Leggi tutti gli articoli di Natascia Zanon (n° articoli 21) |
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