Sei sulla punta della punta di Bergamo. Sopra la città bassa, sopra a quella alta, sopra alla punta chiamata San Vigilio, dove c'è il castello.
“Chi ha la città, non ha il castello. Chi ha il castello, non ha la città. È sempre stato così fino a quando non è arrivata Venezia.” mi ha detto Gianni, la mia guida a un luogo che non vedo da che ero una bambina che con i genitori qui veniva a prendere una coppa di gelato con mele verdi a spicchi.
Bergamo Alta non è cambiata, nel frattempo; non è cambiata da secoli e secoli a oggi, di certo non si stravolgerà in un breve spicchio della mia vita.
Sono cambiati i miei occhi, però, che allora la vedevano sconfinata e ora la ritrovano piccola, quasi modesta, non fosse che – ora che la scalinata è alle mie spalle e io sono sulla cima della cima della cima, chiamata Castello di San Vigilio – non fosse espugnabile quanto l'altezza e le imponenti mura la rendono.
Ho detto a Gianni che avrei chiamato questa la “Vacanza dei Profumi”, grazie a tutti i giardini che le mura nelle mura nascondono.
“Questo palazzo è della famiglia Terzi.” ha detto Gianni, e io ho fotografato quello che il cancello della loro proprietà lasciava intravedere.
Guardo le statue che guardano il paesaggio, anatomie armoniche che placidamente si rivolgono a Bergamo città bassa.
Le ville, viste dalle vie antiche i cui ciottoli indolenziscono la passeggiata, sono facciate quasi anonime: gli ampi giardini delle antiche casate – Moroni, Agliardi, e le tenute oggi visitabili quale ricchezza di questa città – sono nascosti, costretti a condividere il poco spazio che il colle offre con abitazioni molto più modeste. La loro ricchezza si effonde impercettibilmente, profumando l'intera cittadina.
“Sai qual è la cosa strana...? Questa cittadina non è... “stretta”.” dico a Gianni, incespicando sulle parole mentre guardo un gruppo di liceali correre, una ragazza perdere un cucchiaino da gelato e fermarsi allertata per poi voltarsi di nuovo e svanire dietro a un angolo. Come dev'essere studiare qui, e crescere in edifici che sono la storia? “È una piccola città, e di solito hanno strade strette, claustrofobiche. Qui le vie sono larghe, le strade aperte.”
Bergamo Alta respira e fa respirare. Non intrappola, come molte sue coetanee, in intricati e criptati labirinti.
Bergamo alta è svoltare un angolo e vedere la sconfinata pianura su cui troneggia.
Mi domandavo: come dev'essere studiare qui?
Me lo domando di nuovo, entrando in un convento francescano ora divenuto una scuola materna.
È pressoché deserto, quando arriviamo.
Disegni di bambini appesi alle pareti, temi di guerra e di pace; assi accatastate sulla pavimentazione ormai rovinata.
Era un luogo sacro, questo.
In qualche modo lo è ancora adesso, dato alla causa dell'istruzione infantile; tana per inesperti esseri umani, si offre ai miei occhi aperto come un edificio pubblico.
C'è il silenzio, c'è la calma; sussurri di voci all'interno della struttura; c'è un pozzo, ormai inutilizzato, che fotografo appoggiandomi a un arco grezzo, forma semplice e materiale povero.
C'è una porta di legno, socchiusa, e l'impossibilità di resistere alla tentazione.
Non attendo Gianni: so che, non trovandomi, capirà subito dove sono.
I locali oltre alla porta sono bui, imperscrutabili per l'obiettivo. Lascio che il flash illumini senza cercare di comprendere cosa stia vedendo: quando sarò a casa, e vedrò le foto, so che avranno quella tipica luce asettica delle foto di documentazione: qualità estetica pessima, ma il dono di mostrare ciò che gli occhi non vedono.
Viene poi la Rocca.
Unica nella piccola città, non ci chiede di darle un nome per rendersi riconoscibile.
La Rocca, oggi, possente edificio la cui funzione difensiva è ormai totalmente inutile, mostra con una certa dignità cimeli e targhe d'epoca, rigorosamente a tema guerresco.
Ma lo fa con garbo, perché non si dica che non ha nobiltà nel cuore.
Gianni mi indica uno spiazzo, anonimo tra altri, incroci di stradine in questo giardino, e mi dice:
“Lì c’era l’aquila."
E mi racconta di come ci fosse una vera aquila, in una gabbia della larghezza ora segnata dalla mancanza di prato.
Mi racconta di quella porta murata, indicandomi un punto nella parete della Rocca in cui effettivamente c'è una sagoma.
“Non sono mai riuscito a capire dove portasse.” mi confida, e concludiamo la conoscenza di questo luogo salendovi sopra, dove altro verde ci attende.
Non ne conosciamo ogni segreto, ma stando qui, con Bergamo e la valle sotto ai nostri occhi, si può anche lasciare una certa riservatezza all’antichità che ci ospita.
Dopo tanto camminare, cingiamo questa giornata percorrendo le mura esterne.
Il sole è alto, e mi fermo a una delle tante fontanelle da cui abbeverarsi – io, che non bevo mai acqua, definendomi ironicamente “astemia”, mi alzo e dico stupefatta:
“Ma è buona!”
La cosa più banale, così banale da non essere considerato un “bene”, ha un sapore così buono da farmene bere ancora, come fosse una bevanda raffinata.
Sorrido rilassata anche se le gambe hanno dato forfait da almeno mezz’ora, sporgendomi ogni tanto oltre le alte e spesse mura esterne. Mi perdo a fantasticare sul come si potesse organizzare un assedio alla città, troppo difesa per un esercito.
Immagino il nemico apparire come una nebbia all’orizzonte che lentamente incede, penso a quanto gli avversari cambino.
Una volta, su queste mura, avrei saputo che ciò che era dentro con me era amico, ciò che era fuori era nemico.
Oggi è un po’ più complicato.
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