REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno III n° 6 GIUGNO 2007 vol II° TERZA PAGINA


Miti & Leggende
Sigfrido e l’Oro del Reno
Quella dei Nibelunghi è una vicenda difficilmente leggibile. Ripresa da Wagner in contrapposizione agli eroi di discendenza latina, presenta elementi interessanti da analizzare.
Di Serena Bertogliatti


Sigfrido, l’uccisore del Drago – l’eroe che conquistò il leggendario tesoro dei Nibelunghi, rendendolo mitico con la propria leggendarietà.
L’anello del nibelungo, titolo che Richard Wagner diede a una delle sue opere più famose. Chi non conosce la parola “Nibelunghi”?
Persino Topolino ne ha pubblicato episodi.
Ma chi sono i Nibelunghi?
Non si sa con precisione, in realtà. Si sa che...

... Sigfrido (“serpe negli occhi”) si presentò a Crimilde ricco del tesoro dei Nibelunghi, avuto dopo aver sconfitto il drago Fafnir.

Crimilde, sorella del re, era restia a prendere sposo.
Fiera e gelida donna, dal collo bianco come neve e che del ghiaccio ha la robustezza, fieramente irremovibile, le serviva l’arrivo di un eroe straniero, il cui valore era certificato dalla fama acquisita, per smuoversi dalla propria inflessibilità.
Sigfrido è, d’altro canto, l’eroe germanico (Siegfried) di discendenza norrena (Sigurðr) – parte di quegli stessi norvegesi che per tre secoli si erano fatti conoscere come quelli che oggi chiamiamo “vichinghi” – e che dell’eroe nordico ha sicuramente la tempra in battaglia, l’abilità di guerriero, ma anche la capacità di tessere ingegnosi inganni.
E ha infine, come fondamentale requisito per essere considerato l’uomo ideale – come amico, come amante, come figlio, come padre – una cospicua ricchezza.

Esistono due maggiori fonti storiche sui Nibelunghi, riletture dello stesso mito le cui radici si rifanno a eventi storici dei primi secoli dopo Cristo – ma è un mito, e come tale ha origine all’inizio e alla fine di tutto, senza tempo e applicabile in qualsiasi epoca.
La prima è quella norrena, citata in stralci dell’Edda e poi nella Saga dei Volsunghi, norvegese.
La seconda, più famosa, è La canzone dei Nibelunghi, del medioevo germanico.
I personaggi principali sono gli stessi, e così parte dei simboli. Primo fra tutti il percorso che l’eroe deve compiere per conquistare il proprio posto nel mondo.

Alla regina non basterà avere davanti a sé l’incarnazione dell’ideale nordico, quel Sigfrido che ha ucciso il drago e ne ha conquistato il tesoro.
L’eroe dovrà mettersi al servizio del re, aiutandolo a combattere i Sassoni, e ancora aiutarlo a sposare la non meno altera regina d’Islanda: Brunilde. Sigfrido mostrerà allora tutta la sua abilità nel tessere trame nell’ombra. C’è il tempo della Guerra e il tempo dell’Inganno. La conquista della restia regina sarà simboleggiata dalla cintura e dall’anello (simbolo sempreverde) che Sigfrido le ruberà, e che donerà alla bella Crimilde – concessa da Gunther, ora soddisfatto nelle sue richieste di aiuto e lealtà.
Ed eccoci al doppio matrimonio, in cui l’eroe indiscusso perché meritevole di tutto è Sigfrido. E vissero tutti felici e contenti...?
Per qualche tempo, fino a che – per Caso o per Fato – Crimilde non mostra l’anello che a Brunilde apparteneva, sollevando il dubbio: quell’anello non è forse simbolo del fatto che l’uccisore del drago ha condiviso le lenzuola con la regina d’Islanda? Un anello è un pegno che solo in cambio di certe attenzioni si concede.
Entra in gioco Hagen, vassallo di Gunther, che prendendo le difese di Brunilde si schiera contro Sigfrido: al nostro eroe toccherà a breve la morte.

Il tesoro dei Nibelunghi sopravvive al proprio possessore, finendo nelle mani del suo nemico, che lo seppellisce nel Reno. Sia mai che Crimilde, in attesa della dovuta vendetta, possa utilizzarlo per radunare un esercito.
La regina, nel frattempo, diventa sposa di Attila; sarà lui a essere mezzo della sua vendetta – ma ormai, a tredici anni dal delitto, la voglia di vendetta e il timore di esserne vittima si sono sparsi ovunque, ed è il leggendario tesoro la chiave di tutto.
Chi avrà il tesoro, avrà la vittoria.

Il poema si conclude con una carneficina.
Ne sopravvivono Gunther e Hagen.
Crimilde, la cui sete non è stata ancora saziata, uccide il primo e ne porta la testa al secondo, domandando:
«E ora dimmi dove si trova il tesoro.»
Hagen non acconsente, e Crimilde lo decapita.
Un vassallo di Attila, sapendo ciò, chiude il cerchio e spunta la testa alla Regina che tutto causò, famosa per la propria bellezza e per la propria testardaggine.

Quella dei Nibelunghi, in origine Volsunghi, non è una vicenda facilmente leggibile.
Quando Wagner la riprese si era nel periodo della gran romanticizzazione delle saghe degli antenati in contrapposizione agli eroi di discendenza latina.
Vi sono delle differenze che affondano le proprie radici secoli e secoli prima che le saghe originali fossero scritte, e tra queste radici una di quelle più interessanti riguarda il parallelo tra Sigfrido e Odino, Padre di tutti gli dei, sorta di Giove della mitologia scandinava la cui caratteristica peculiare – e più in contrasto con la nostra concezione di Dio – è il conoscere l’inganno e per ciò essere a sua volta un ingannatore senza che ciò lo privi del rispetto che gli viene portato, come accade con Sigfrido.

Vi è poi il drago, elemento che ha così ben attecchito nella cultura europea da divenire quasi scontato, custode di tesori e principesse. Nella Saga di Volsunghi, precedente, era un nano; ma la trasformazione della sua morfologia non muta il concetto: sia draghi che nani risiedono nelle caverne, nel ventre della roccia; sono esseri ctoni, più vicini alla materia originaria da cui venne creato il mondo, e perciò anche più minacciosi; custodiscono oro e preziosi. Vi è il tesoro, perno attorno a cui ruotano le vicende dei protagonisti.

Il tesoro che rappresenta il potere, e per ciò può essere sia risolutore che causa di danni. Dovrebbe essere utilizzato – e così Sigfrido fa – come mezzo per conquistare altri tipi di beni: una sposa, ad esempio, “prezioso” umano che permette al protagonista di cessare il lasso di tempo di vita fatto di vicende eroiche e fermarsi. È la conquista di una posizione sociale e di un ruolo nel mondo.
Ma il tesoro può – come spesso l’oro di cui i tesori sono fatti - fa divenire meta e non più mezzo, ed è questo che la morale delle vicende nibelungiche insegna: il potere è un mezzo di scambio, modo di conquistare i veri tesori; anelare al potere senza altri fini lo rende non più unificatore di genti, ma distruttore.

© Riproduzione vietata, anche parziale, di tutto il materiale pubblicato