Meno Cantone conosceva la montagna come solo uno nato e cresciuto alle sue pendici poteva.
La montagna in questione era l'Etna, che sebbene maschile in quanto vulcano, per i suoi abitanti era "a muntagna", femmina, in parte perché identificato come una madre sicula, irruente, scarrina ma nonostante tutto legatissima ai suoi figli, e in parte perché non era visto come una potenza distruttrice della natura, quale un vulcano poteva essere, ma come dispensatrice di frutti buoni, di odori inimitabili e di paesaggi che toglievano il fiato... "unni passa lava lassa ricchizza!" dicevano i vecchi etnei.
Meno era detto Polifemo, perché aveva perso un occhio in guerra e una grossolana cicatrice gli tagliava il volto dall'attaccatura dei capelli fino alla guancia destra. I bambini avevano paura di quel vecchio che viveva isolato dal mondo, in una piccola casa tra le sciare, un tempo appartenuta a suo nonno che di mestiere faceva u ghiariotu. Lo circondava un paesaggio spettrale, fatto di distese di pietre nere dalle sfumature rossastre, circondato solo da profumatissime ginestre e da un vecchio castagno, miracolosamente scampato alla distruzione delle colate laviche. Sotto quell'albero, Meno aveva posato un tronco di noce in cui aveva scavato una nicchia in cui riporre la fiaschetta di vino nostrali e il pane fatto di casa impastato con le olive e il pepato stagionato, che sua sorella Nina gli portava su una volta alla settimana. Sedeva lì, sul suo trono, e ascoltava.
Ascoltava la voce del mare che nelle giornate di vento arrivava fin lì, con l’odore salmastro. Gli raccontava dei pescatori bruciati al sole ad annodare le reti, delle notti passate al freddo a combattere contro le acque nere della scogliera di Catania. Gli diceva, il mare, che chi non lo temeva campava poco. La prima cosa che i carusiddi imparavano era ad avere paura di lui, ad avere rispetto e a trattarlo con ossequio.
Meno annuiva e beveva un sorso di vino.
Le ore trascorrevano e lui stava sotto al castagno, seduto sul suo trono, passavo le stagioni, veniva la neve, poi l'estate e lui ascoltava. Amava ascoltare quanto odiava parlare.
Ogni tanto andava a trovarlo qualche pastore e si intratteneva con lui a parlare, gli raccontava della stagione, degli agnellini nati e lui annuiva. Ascoltava poi, solo, rielaborava tutto e si faceva una propria idea su quello di cui era venuto a conoscenza.
Era sempre fermo lì, a Milo, ma aveva la cultura di un uomo che aveva viaggiato molto e questo grazie al tempo che dedicava a riflettere e capire.
I suoi nipoti erano tutti sturiati, vivevano in città o addirittura trasferiti in continenti e non capivano le stranezze del loro vecchio zio che scolpiva la pietra e non vendeva le sue opere. Era molto bravo e dietro la casetta aveva costruito un muretto a secco tutto incastonato di facce.
Facce di donne, di uomini, di mafiosi e di picciotti... raffiguravano smorfie di dolore o di gioia, a seconda di quello che gli veniva raccontato.
Quel muro dava un effetto straordinario, come se fosse vivo, come se migliaia di anime vi fossero state percantate.
Poi ascoltava anche l'Etna. Sentiva se aveva disturbi o se era serena, la montagna, e quando brontolava sogghignava rivolto verso la cima e diceva: "Avistru mangiatu pisanti, signuruzza mia?!"
La sera prima di coricarsi la ringraziava per i frutti, per l'ombra e per la compagnia. Si addormentava sereno.
Arrivò un inverno molto rigido, in cui il freddo entrava nella carne e nemmeno il fuoco vivido riusciva più a scacciare quel demone gelido e Meno si ammalò.
Vivere in quel modo spartano certo non lo aiutava, e l'età tanto avanzata cominciava ad essere un limite troppo gravoso.
Un mattino in cui Nina si era recata a portargli qualcosa lo trovò ai piedi del letto che tremava di freddo nonostante fosse già estate.
Chiamò il marito, chiamò il prete e chiamò il figlio dottore.
La corte gli stava intorno e lui li guardava, uno ad uno, nel guscio fragile dei suoi 89 anni.
Si soffermò sul prete e disse: "Siti ca pi cunfissari o pi essiri cunfissatu? Nun ciaiu niente a chi diri ca u Signori già non canusci"... prese la mano della sorella.
"Vaiu e ti tegnu u postu" e rise. "E tu, ora, ma purtari supra lu me tronu!" ordinò al cognato.
"Siete troppo debole..." protestò il nipote, assumendo un tono professionale.
"Aiu a moriri, non mi servi u dutturi pi sapillu e vogghiu moriri unni riciu iu!".
Nina fece un cenno al marito e portarono il vecchio lì dove aveva trascorso buona parte della sua vita.
Il castagno scosse le proprie foglie e lui rise, posandogli le mani sul tronco.
"T'arringraziu amicu miu".
Sedette sul suo trono, di fronte al muro.
Il parroco si fece il segno della croce all'inquietante effetto che quell'opera dava.
Nina lo guardò con occhi lucidi d'affetto, il figlio con espressione d'interesse...
"Vogghiu essiri seppellitu ca, davanti a stu muru. Ci siti tutti vuiautri... c'è tutta a me vita e a vostra".
"Ma ci avete il posto al cimitero nella tomba di famiglia" protestò il cognato.
Meno, detto Polifemo, alzò una mano per zittire tutti...
"Ma non capiti? Iddu mi parra...(*)
*
"Ma non capite? Lui mi parla...".
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