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Un libro di Gabriel Garcìa Màrquez che fa riflettere

Cent’anni di solitudine

Che sia questo il destino di tutti noi?

Di Marina Minasola

Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”.

Sono bastati diciotto mesi a Gabriel Garcìa Màrquez per scrivere il libro che costituirà una svolta nella letteratura mondiale e che gli farà meritare un premio Nobel. Quindici sono stati gli anni però che sono occorsi all’autore per pensare.

Tra le pagine si scorge tutto il fascino tipico della letteratura dell’America Latina, quel fascino che accomuna autori disparati tra cui basti annoverare, per fare un paio di nomi, Isabelle Allende e Sepulveda. Esoterismo e magia, ma una magia trattata come se nulla avesse di strano. Tra parenti i figli nascono con coda di maiale, naturale. Una città intera può essere attanagliata dal morbo dell’insonnia. La ragazza più bella mai nata può ascendere in cielo, i fantasmi e i vivi coabitano, una stanza può non essere colpita da polvere e tempo, può piovere per quattro anni, undici mesi e due giorni. Si può persino intrattenere una corrispondenza con dei medici invisibili, si può diventare pluricentenari e si può avere il dono della chiaroveggenza senza che questo stupisca nessuno.

Macondo all’inizio della storia è una città fondata da poco, con trecento abitanti, dove nessuno aveva superato i trent’anni e dove non era morto nessuno.

Josè Arcadio Buendìa era tra i fondatori, un uomo attivo e laborioso, ma attanagliato da un senso di colpa destinato a seguirlo anche dopo aver superato foreste e costruito la nuova città. Un senso di colpa che si porterà anche alla morte, legato ad un Castagno.

Ursula, sua cugina e sua moglie, donna forte come una roccia, instancabile e concreta, con tantissimi figli e nipoti che non è sicura di conoscere e di capire, forse perché la loro “coda di maiale” è il marchio della solitudine. Morirà senza che gli abitanti della sua città quasi se ne accorgano, vecchissima, riuscendo fino alla fine a nascondere la sua sopravvenuta cecità, morirà confondendo presente e passato, annegata dai ricordi.

Il figlio, futuro colonnello Aureliano Buendìa, era il primo uomo nato a Macondo. Sposerà una bambina, che però morirà prestissimo. I suoi occhi profondi vedono tempi futuri, ma non per sempre. Combatterà 32 guerre e le perderà tutte. Si schiererà con i liberali e diventerà loro eroe, capendo a stento, o forse non capendo, cosa siano i liberali, spinto da qualcosa che un giorno capirà di non sapere cosa sia. Abbandonerà la guerra e fabbricherà pesciolini d’oro, li venderà e con il ricavato scioglierà nuovo oro per fabbricare nuovi pesciolini, un circolo vizioso che diventerà l’unica sua ragione di vita. Avrà diciassette figli da donne che non ricorda, tutti saranno uccisi.

Amaranta odia, odia e non riesce ad amare, suscita passioni morbose a nipotini allevati come figli ma rifiuta due pretendenti per cui in passato o in futuro avrebbe fatto qualsiasi cosa, persino bruciarsi una mano. Tesse un sudario apparentemente infinito per rallentare la morte, perché desidera morire più tardi di chi odia, ma non ci riuscirà. Rebeca ama troppo, ma solo chi non dovrebbe amare. Fernanda è stata allevata per diventare una regina ma ha un marito che passa più tempo con la concubina che con lei. Meme ama per ribellione ed è distrutta per salvare la reputazione della sua stessa madre. Pilar Ternera avrà un bordello che è un Paradiso, ma i suoi figli non sapranno mai chi è.

Melquìades raccoglie la sapienza ed è il legame con il mondo delle invenzioni. I suoi scritti in una lingua compresa troppo tardi, rivelano una realtà inutile ormai.

Un infinito numero di Aureliani introversi e di Josè Arcadi vigorosi: c’è chi leggendo sa cose che non si possono sapere dai libri, chi facendo l’amore fa partorire gli animali e si arricchisce, chi ama le feste, chi è stato impressionato da una impiccagione, chi scappa con gli zingari. C’è chi resta coinvolto in lotte sindacali ed è l’unico a sapere la verità: quella notte sono morti ammazzati tutti i lavoratori della compagnia bananiera che erano alla stazione.

Tantissimi personaggi, troppi per citarli tutti in poche battute, tantissimi intrecci per una trama coinvolgente. Un elemento comune a tutti, anche ai più gioviali e apparentemente integrati in società: la solitudine. Una solitudine, vera protagonista del libro, che si manifesta non parlando, combattendo una guerra senza ideali, fabbricando pesciolini d’oro, organizzando baldorie, abbandonando la famiglia, essendo relegati in un castagno, decidendo di non amare, decidendo di amare e basta, guardando i propri figli da lontano, dividendo il proprio uomo con un’altra, lavorando senza sosta o facendo gli scansafatiche. Avendo paura di uscire di casa, rinunciando a diventare Papa, cercando di tradurre manoscritti di un vecchio zingaro, parlando con fantasmi e spargendo olii profumati sui nipoti per riconoscerli dal buio di una cecità non rivelata.

Macondo era una città tranquilla. Non era mai morto nessuno. L’arrivo delle invenzioni, dal ghiaccio alla compagnia bananiera, dal grammofono, alle matrone francesi, dagli zingari agli inglesi fino alla ferrovia, l’ha corrotta. La memoria della famiglia più famosa si smarrisce e il vento spazza via la città, una città e tante storie svanite nel nulla, spazzate dal vento.

Possiamo ancora salvarci dalla solitudine, o anche per noi i manoscritti di Melquiadès sono stati decifrati quando la storia era già stata scritta?

Argomenti:   #libro ,        #màrquez ,        #recensione ,        #romanzo



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