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Una storia vera

Drammatico spaccato di una Sicilia di mezzo secolo fa

Di Adriana Di Mauro

                  Alla fine delle frasi in dialetto vi sono dei numeri, clicando su di essi si va alla traduzione

Biancavilla, 30 Agosto 1962.

L'aria era soffocante già di primo mattino, dopo un acquazzone che pareva dover portare tregua all'afa... invece il caldo era scoppiato più invadente di prima. Si attaccava alla pelle, si incollava ai vestiti come un morbo incurabile.

La notte era stata inquieta e il risveglio aveva portato uno strano presentimento, un disagio inspiegabile.

Francesca Vinci, conosciuta al paese come Ciccina, si alzò con un gemito soffocato dal letto umido di sudore. I lunghi capelli corvini appiccicati alle braccia, al corpo bellissimo coperto dalla sottana nera. Aveva trentatrè anni, due figlie avute dal primo matrimonio con Alfio Schillaci, Maria Grazia e Rosaria. La grande viveva da anni nel brefotrofio, da quando lei si era legata ad un uomo illecitamente. Aveva avuto due figlie gemelle con quest'uomo ma solo una delle due era sopravvissuta, Anna.

Francesca era bella, faceva gola agli uomini, straordinariamente alta, più di un metro e 75, un corpo reso morbido dalle gravidanze e gli occhi di pece. Era una donna sola ai tempi in cui in Sicilia una donna giovane sola non poteva restare.

Si avvicinò al catino e con mani tremanti si sciacquò il viso con l'acqua in cui erano annegate numerose zanzare. Si chiese se la madre, Saridda, avesse già preso l'acqua alla fontana. Serviva acqua pulita per Annuzza... In quel paese dimenticato da Dio, solo i ricchi avevano l'acqua corrente in casa.

Si specchiò. Era pallida e gli occhi risaltavano ancora di più, come le labbra rosse. Appoggiò le mani nervose sul marmo rosa della specchiera. Il senso di stordimento lo conosceva bene, era presentimento. Aveva ereditato dal padre, Turi Vinci, il dono di presagire e l'intuito verso l'invisibile. Doveva accadere qualcosa, lo sapeva.

Raccolse i lunghissimi capelli in una crocchia sulla nuca, come faceva sempre ed entrò in cucina, dove la madre era già ai fornelli di prima mattina.

Chiuse gli occhi... a che valeva litigare con la madre? Era testarda, ostinata nel voler gestire la sua vita.
Si vestì in fretta, con un vestito nero. Vestiva solo di nero da quando Alfio era morto di malattia, a soli 24 anni. Indossò gli zoccoli e rifece il letto. Poi prese la neonata dalla culla e si scoprì una mammella generosa per allattarla. Mentre succhiava avidamente, lei le accarezzava la fronte e sorrideva.

L'amava disperatamente, nonostante avesse avuto solo dispiaceri dalla sua nascita. "Si a picirrida chiu bedda do munnu...."(3) sussurrò.
Quando si riaddormentò, finalmente, cominciò a preparasi per andare in negozio.
Il marito le aveva lasciato un po' di soldi e una casa, che aveva abbandonato a malincuore per trasferirsi in questa che comunicava con quella della madre tramite un cuttigghiu (4).

Odiava quella casa, accettata per poter avere finalmente saldato un credito verso i pecorai del paese, che per anni, afflitti dalla fame, avevano preso beni alimentari per sfamare i numerosi figli. Non aveva avuto cuore di negargli quella soluzione.

In paese l'avevano avvertita di non accettare, di perdere piuttosto il denaro, ma come fare? Aveva tre figlie, una madre anziana e un negozio da portare avanti e tutto da sola.

I soldi le servivano. Le restava una parte della casa da saldare a quell'uomo, e da creditrice era diventata debitrice. Non aveva più contanti, avendo investito tutto nel comprare le mandorle da rivenderne sia il frutto che la scoccia(5) che veniva usata per fare il pane nei forni.
Aspettava il ricavato della prima vendita a giorni e si sarebbe tolta definitivamente quel peso, sistemata quella baracca e rivenduta al doppio.
Aveva un senso degli affari molto sviluppato dalla fame che aveva patito nella vita, figlia di un modesto calzolaio partigiano, comunista, troppo povero e troppo generoso col prossimo.

Sorrise al ricordo del padre morto, a quando rubava le caramelle e i fichi secchi di nascosto, e faceva chilometri di strada a piedi per portarli a Mariuzza, la nipote chiusa in brefotrofio. Non aveva cuore di vederla lì e nemmeno lei, era pur sempre la madre, ma Maria era undicenne e le monache l'avevano dipinta ai suoi occhi come il diavolo per quelle bambine avute dopo una relazione peccaminosa. Il solo peccato l'aveva commesso la vita nei suoi confronti, il suo cuore era pulito aveva solo amato l'uomo sbagliato per solitudine... Maria non le parlava, se non per l'indispensabile e l'aveva picchiata quando le aveva detto che lei era una peccatrice... che era il demonio. Da allora, la bambina, preferiva evitarla.

Uscì nel mattino assolato, bella e dal portamento arrogante, con la sua bellezza inconsapevolmente provocante. Si fermò, un istante e guardò la porta della casa. Un lungo brivido le percorse la schiena.

Per un momento si chiese se non avrebbe fatto meglio ad ascoltare l'avvertimento della gente. Era appartenuta ad una donna che, a sentir le voci del paese, praticava le mavarie(6) e che un giorno, impazzita di rabbia verso il figlio e la nuora era uscita davanti al quartiere e tirando fuori il seno gli aveva gridato: "Maliriciu tuttu u latti ca ti resi! Non ti la gudiri! Tutti lacrimi na vita ai aviri!"(7)

La nuora non aveva voluto quella casa dopo la sua morte e così anche il figlio. Era maledetta dicevano e avrebbe portato disgrazia a chiunque la possedesse.
Lei non credeva a queste cose... e poi, erano passati anni da allora.
Riprese il suo cammino verso il negozio.

Quel pomeriggio torrido doveva recarsi ad un appuntamento dalla sarta, aveva comprato una pezza di stoffa per far cucire un abito a Sarina già da un po' di tempo, rimandando sempre. Finalmente aveva deciso di andarci, visto che il negozio sarebbe stato chiuso. Sarina saltellava per la cucina, eccitata per quella novità. Era una bambina molto vanitosa, al contrario di Maria Grazia, così schiva e austera, e l'idea di avere un bel vestito nuovo la riempiva di gioia.

Francesca non le badò e si infilò le scarpe dal tacchetto grosso. Prese la borsa, la stoffa e allungò la mano verso la bambina che vi si aggrappò con un gridolino di gioia. Uscirono nel pomeriggio assolato, entrambe con un largo sorriso sul volto, ma quello della donna morì non appena si trovò un gruppo di persone davanti.
Gaetano Tomasello, il pecoraro verso il quale era debitrice, le stava davanti, più basso, sporco e dall'espressione arcigna. Al suo fianco il genero, nella lapa(9) la moglie e un po' dietro un uomo ben vestito, e che non puzzava di pecora.

La madre lanciò un'occhiata al gruppetto, inquieta, poi trascinò dentro la bambina che cominciò a strillare protestando per il mancato regalo.
Francesca prese una scopa e tornò di fronte agli uomini.

Francesca inspirò, poi volse loro le spalle e fece per rientrare.
Uno dei due prese il bastone che usava per stordire le pecore, 'u ruppu' e Tomasello il coltello da pecoraro.
Con un gesto fulmineo, fatto centinaia di volte sulle bestie, il genero colpì Francesca, che lo sovrastava di una spanna buona, alla testa per tramortirla.
La donna cadde bocconi, spalancando la bocca sia per lo stupore che per il dolore lancinante alla testa. Si rialzò e avanzò di qualche passo, poi cadde in ginocchio, infine stesa sul ventre, con gli occhi sgranati.

Nel frattempo la madre era uscita a controllare che nulla fosse accaduto a quella sua figlia testarda, che aveva tanta forza di volontà, ma la lingua lunga. Temeva che si cacciasse nei guai. Fuori la scena che le si presentò agli occhi fu la più terribile ed impensabile. Tomasello che girava il corpo di Francesca, e cominciava a pugnalarla.

Si accanì anche sulla vecchia, senza pietà, con la crudeltà propria di chi è abituato ogni giorno ad uccidere esseri viventi.

Alle grida erano accorsi i vicini che avevano gridato a loro volta.

Sara uscì fuori e nel vedere la madre a terra, coperta di sangue cominciò a gridare e piangere, buttandosi su di lei.

Qualcuno la tirò via a forza. Aveva il suo abito rosso ora.

Ci fu il processo, il Tomasello (nome fittizio) si addossò la colpa e il genero venne scarcerato, Anna venne data in adozione, Maria Grazia uscì dall'orfanotrofio a 16 anni, Sarina a causa del trauma restò con la nonna che sopravvisse, ma che da quel giorno visse come un automa il resto della sua vita.

Note: (per tornare al testo cliccare sulla traduzione)

1) Vincenzina l'ha portata da Alfia la tacchiligna (soprannome) per schiacciare le mandorle
2)
Piangeva troppo, faceva venire il mal di testa con quel pianto
3)
Sei la bambina più bella del mondo
4)
cortile
5)
buccia
6)
sortilegi
7)
"Maledico tutto il latte che ti ho dato" Non te lo devi godere! Solo lacrime ne devi ricavare
8)
perché un abito rosso?
9)
APE piccolo motocarro della Piaggio di allora
10)
i soldi che mi dovete dare
11)
originaria di Adrano
12)
no
13)
Perché piangi tuo marito se da puttana hai fatto i figli con uno che non ti ha sposata?
14)
datemi la radio e altre due cose e siamo in pace (abbiamo pareggiato i conti)"

15) fate quello che volete (tanto è inutile) io non mi muovo e da qui, oggi, qualcuno non si alzerà più da terra
16)
allora siete davvero una muletta testarda
17)
sono quella che sono! e voi siete uomini senza onore! se volete i soldi ve li darò stasera, se no tornate con i carabinieri
18)
e prima lavatevi, che questa puzza di pecora mi dà fastidio
19)
mi uccidono la figlia
20)
chiamate le guardie, i pecorai ammazzano ciccina e sua madre
21)
forza, li avete uccisi gli agnelli. Ora scappate nelle montagne


Argomenti:   #racconto ,        #sicilia



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