Il rumore della trivella non è solo l'ostinato squarcio nelle viscere della terra in cerca dell'oro nero, ma la costante corrosione dell'animo che pervade Daniel Plainview "Il petroliere" del titolo italiano (l'originale è il ben più esplicativo "There will be blood" dal romanzo “Oil!” di Upton Sinclair).
In un arco temporale che abbraccia circa un trentennio Paul Thomas Anderson costruisce l'epopea di un qualsiasi cercatore di minerali preziosi che passa alla ricerca del petrolio, elevando all'ennesima potenza la propria ambizione registica (dopo "Magnolia", "Boogie Nights" e “Punch Drunk Love”) a servizio di una trama ammaliante, densa di ridondanze e evocazioni.
Sul finire del milleottocento nel selvaggio west, praterie sterminate e distese brulle sono le lande vergini nelle quali operare ferocemente la propria avidità e cupidigia. Sfaccettature mai troppo esibite ma espresse dalle azioni del protagonista, un ispirato e come sempre assorbito profondamente nel personaggio, Daniel Day Lewis, che non spiega mai troppo di sè e lascia siano gli incontri della sua esistenza a definirlo.
L’incontro affettivo: dopo un incidente, un lavoratore muore lasciando un bambino che egli adotterà portandolo con sè in ogni spostamento e coinvolgendolo nel proprio lavoro (salvo poi rinnegarlo al momento più opportuno); l’incontro con l’alter ego, il predicatore/affabulatore Eli/Paul – qui par di vedere il regista ammiccare a se stesso mentre decide di rendere il doppio personaggio pronto per confondere gli animi degli spettatori ma soprattutto dei critici- i cui abiti neri li indossa il poliedrico e bravissimo Paul Dano, una figura oscura e infernale che incarna l’ipocrisia e la meschinità. Sarà poi la volta del fratello che viene dal passato, della morte, delle pistole, delle trattative con gli ignari possessori del tesoro sotto alle loro case fatiscienti e di quelle con gli abili e benvestiti signori capitalisti. Un’eccellente abilità oratoria, una profonda e animale solitudine alimentata dal desiderio di possedere e primeggiare sono i pilastri sui quale si erge la metafora primitiva della sopravvivenza a ogni costo, contro ogni morale e senza colpe giustificata dalla facile e scontata corruttibilità dell’animo umano. Niente figure femminili eccetto madre terra, generosa di ricchezza sfruttabile sino all’ultima goccia.
Il regista affonda a piene mani nella storia usando tutti i mezzi di fascinazione possibili e realizzando scenari di grande forza: interi piani sequenza nei quali gestisce con grande capacità evocativa e tecnica gli eventi mentre scivola esagerato quando non lima affabulazioni, retorica e verbosità. Indigesto, duro, visionario cinema desertico al quale è necessario regalare fiducia, dedizione e volontà.
GIUDIZIO GENERALE ****
RITMO ***
IMPEGNO **
COINVOLGIMENTO ***
Legenda : * scadente ** sufficiente *** discreto **** buono ***** ottimo
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