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La mano del faro Un raconto-memoria della Sicilia tanto amata dall'autrice Di Adriana Di Mauro
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Il barone del paese, Giuseppe D’Urso Somma, aveva sposato una giovane donna pur avendo già da anni passato i quaranta. L’aveva scelta bella e sana per assicurarsi un erede degno del nome del casato e non aveva badato spese per assicurarle una gravidanza serena e agiata, piena di tutte le comodità moderne che l’epoca e il denaro potessero offrire. Correva l’anno 1915 e in un mattino di Aprile la Baronessa Veronica era pronta per dare alla luce l’erede dei D’Urso Somma. Passarono molte ore dal principio delle doglie ma la donna non riusciva a sgravarsi. I medici e le ostetriche non riuscivano a darle alcun aiuto…l’unica soluzione sarebbe stato un cesareo con nessuna garanzia di sopravvivenza della madre e del figlio. Nel palazzo l’angoscia era tangibile e l’uomo era disperato, pregava la Madonna Sant’ Anna e tutti i santi perché mettessero fine a quel calvario, ma senza ottenere alcun aiuto nemmeno dalla mano divina. Veronica giaceva ne letto, stremata e tremante… sentiva che presto tutto sarebbe finito e non nel modo aspettato. Il barone la guardava dal vano della porta e sentiva di essere ogni istante sempre più impotente di fronte alla crudeltà della natura. La moglie aveva solo vent’anni e nonostante questo non riusciva a compiere il compito più semplice che la natura le aveva affidato. Attorno al letto c’erano un gruppo di comari, vestite di nero che ripetevano una preghiera per aiutare la natura a svolgere il suo compito. La cantilena gli rimbombava nella testa senza pietà: Scatinati sta puviredda Pi lu figghiu c’aviti ‘m brazza Cunciditici sta grazia! Ma nulla accadeva, la donna soffriva, si lamentava e lui si sentiva impotente…guardò le figure nere e un moto di rabbia l’invase. “Andate via!” esplodendo. Le tirò via dal letto una ad una e le cacciò fuori dalla stanza quasi prendendole a calci, “Corvacci neri di malagurio!” gridò loro. Le donne si allontanarono gridando e strappandosi i capelli per l’offesa subita. “Nessun dio in cielo e in terra può aiutarla” disse addolorato, lasciandosi sprofondare nella poltrona accanto al letto. Guardava la moglie dietro al muro di lacrime e il cuore sembrava seccarsi d’ogni goccia di sangue. Una delle cameriere che s’apprestavano a curare la partoriente si avvicinò al padrone con aria mesta. “Signor barone, iu canusciu na fimmina…”. L’uomo non alzò nemmeno il capo. “Si dice che sia brava a fari nasciri i picciriddi perduti…”. “Nemmeno i dottori sono riusciti…”. “Affidatevi…dopotutto a questo punto non aviti niente da perdiri e tutto da guadagnare. A mannu a chiamu!”. Mela aveva “la mano del faro”…ossia aveva passato tre volte di seguito il faro di Messina senza toccare alcun punto della costa est della Sicilia e di quella ovest delle Calabrie, e per questo aveva il dono di riuscire a far sgravare le donne in tempo brevissimo. Era ricercata più delle ostetriche e dei dottori che con la loro medicina molto spesso facevano morire le giovani puerpere, specie al primo parto. Mela, all’anagrafe Carmela, era un strega, una “maiara” che con la profonda conoscenza della natura e dei poteri delle pietre riusciva a portare bene soprattutto tra la gente povera e dimenticata dalla signora bendata. Mela entrò nella stanza dove l’odore di morte sembrava diffondersi. “Poveru accidduzzu…” mormorò accostandosi alla donna, ormai priva di forze. Le accarezzò la fronte come una madre stessa avrebbe fatto e le sorrise con la bocca sdentata. Si legò i capelli cespugliosi e grigi con una pezza e si rimboccò le maniche della camicia scura. Dalla borsa estrasse una “pietra prena” e la legò alla gamba della donna che faticava ormai a tenerle alzate. “Fozza isati! Tiniti!” ordinò alle cameriere che ubbidirono impaurite, sia per la sorte della padrona sia per l’aspetto arcigno della vecchia strega. La videro armeggiare e mettere dentro un bicchiere di vetro una spugna ramificata, “la rosa del parto” e ripetere a bassa voce una formula propiziatoria. “Quannu u ciuri si apri u picciriddu nasci” annunciò con tono fermo. Strinse nella mano rugosa tre fave nere e poi le passò all’uomo. “Daticeli a mangiari a poca distanza l’una dall’autra e pregati! Priati a cu vuliti ma priati!” gli ordinò. Le ragazze guardavano ora la vecchia ora il bicchiere e assistettero con grande stupore ad un evento che non aveva nessuna spiegazione logica… man mano che la rosa del parto si dilatava, così si apriva il collo dell’utero della donna. “Fozza e curaggiu picciridda ca ora vi livati u pinseri” sorrise alla baronessa che non aveva più lacrime e inghiottiva a fatica e in silenzio le fave che il marito le infilava in bocca. Poco dopo che ebbe inghiottito l’ultima le tornò forza e cominciò a spingere quando la vecchia le diceva…qualche minuto dopo nacque un bambino, un maschio. Mela rise e lo alzò in aria…per qualche istante non pianse, sembrava morto. La madre pianse ancora ma qualche istante e il bambino cominciò a strillare. “Un miracolo…” mormorò il barone incredulo. La vecchia si prese cura del nascituro e poi lo posò in petto alla madre, che sorrise e pianse ancora. Armeggiò col cordone e lasciò alle cameriere la cura della madre che non ebbe nessuna conseguenza spiacevole. La strega trasse dalla sua borsa un bracciale d’ambra. “Chistu servi pì tiniri lontani i fatuzzi ca scongicanu i picciriddi” le disse ridendo e legandolo al braccio sinistro del neonato. “Avete fatto un miracolo…” mormorò il barone baciandole le mani. “Fici tuttu la natura e l’amore di matri” sorrise lei cominciando a raccogliere le sue cose. “Quanto vi devo?” le chiese apprestandosi a tirare fuori dai pantaloni un portamonete. “Quello ca fici non ha prezzu, non si poti pagari a vili denaru… io vi diedi l’amuri e la fede nella natura…voi putit darimi nu poco di pani e formaggiu tenero ca aiu a fari strada dumani a matina” chiese umilmente. “Tutto quello che comandate!” fece un cenno ad una delle cameriere che tornò con un fagottino profumato. La vecchia si chinò sulla baronessa e le baciò la fronte e lo stesso fece col bambino “Cent’anni di saluti e d’amuri” gli augurò. Senza dire altro si allontanò, ricurva, stringendo il fagotto al petto. Quella mattina andò per il paese in cerca di 7 donne che si chiamassero Grazia e si fece dare da ognuna di loro un pezzo di pane; li chiuse in un fagotto e lo lasciò alla portiera del palazzo dandole istruzione di farlo mangiare alla madre, come dono di tanto latte per il nuovo nato. Le streghe son sempre esistite ed esistono ancora, questo racconto in cui sono descritte alcune usanze popolari pagane poi inglobate nelle tradizioni religiose, è un tributo a queste donne straordinarie che ci hanno tramandato molto più di quello che immaginiamo. Argomenti: #racconto , #sicilia Leggi tutti gli articoli di Adriana Di Mauro (n° articoli 11) |
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