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Racconti di Torre de Busi

Pierina & “Gioanì sensa pura”

Un ricordo e una favola bergamasca

Di Cricio


Pierina era una ragazza minuta, con i capelli castani mossi e ricadenti sulle spalle. Era stata mandata da noi “a servizio” da Zia Margherita.
Era di Torre de’ Busi dove mia zia aveva una casa.

La famiglia di Pierina abitava in un mulino nella valle. Solo qualche volta tornava a casa sua; malgrado Torre de’ Busi fosse a pochi chilometri di distanza il viaggio era un’avventura.
Di giorno lavorava per tenere la casa in ordine, ma la sera era libera e la passava a fare giochi con me ed a raccontarmi, un po’ in italiano e un po’ in bergamasco, le favole, la più belle che abbia mai sentito, quella di “Gioanì sensa pura” mi faceva tremare per la presenza dei misteri dei morti, ma tutte quelle di cavalieri e belle fanciulle mi affascinavano e sapevo che terminavano sempre con una gran festa e “pastì,pastù me n’o magnat gna ü’bucù1. Poi mi raccontava della sua casa e del lavoro nella Manifattura, della lavorazione della seta, del baco e dei bozzoli. Io ero contento e pendevo dalle sue labbra, mi sembrava che la sua casa dovesse essere meravigliosa.
Così ho conosciuto all’inizio Torre de’ Busi, un posto in cui poi passerò gran parte delle mie vacanze e che è stato il luogo dei miei sogni.


Gioanì sensa pura2


Gioanì era ‘l scarpulì3 del suo paese. Un giorno, stanco di lavorare vuole provare a cambiare vita e se ne và in città.

Lì arrivato, si informa di cosa c’è, cosa si racconta, per meglio capire che opportunità ci sian per lui in quella città. Viene così a sapere che c’era un palazzo su una collina dove non ci voleva stare nessuno perché si sentivano grida e lamenti tutte le notti e da anni era abbandonato. La gente diceva anche che chi fosse riuscito a restare in quel palazzo per tre notti di fila senza scappare, sarebbe diventato il padrone del palazzo.

Questo lo stuzzica, non è uno che si lascia spaventare, non crede agli spiriti maligni e ama mettersi alla prova, così decide che quella era una cosa da tentare e, se avesse superato la prova, avrebbe risolto i suoi problemi e vissuto tranquillo i suoi giorni.

Imbocca la strada che conduce al palazzo, è stretta tra i rami degli arbusti l’hanno invasa, il fondo in terra battuta è sconnesso e crescono cespugli. È strano non ci siano nè fiori nè profumi, nessun uccello che canta, nè farfalle che volano. La straduncola sale lentamente la collina e man mano che ci si avvicina al palazzo si trovano tralci di rovi che si pigliano nei tuoi vestiti e sembrano volerteli strappare, si avvinghiano e configgono le loro dure spine nella stoffa e graffiano anche la pelle
. Ma Gioanì non si ferma e, seppure con attenzione, procede sicuro.
Arriva alla fine al Palazzo che sembra che lo guardi allibito con le sue finestre scure.
In fondo allo spiazzo invaso da rovi e ortiche, c’è un portone spalancato e dall’atrio arriva la luce, come se tutto fosse stato predisposto per l’arrivo di un ospite importante.

Con circospezione entra, guardandosi attentamente, ma non c’è nessuno. Uno scalone conduce la piano superiore ed è illuminato da torce accese.
Gioanì non esita e sale i gradini.
A differenza della stradetta, qui è tutto in ordine, ben tenuto e pulito, come deve essere una casa signorile. Le stanze seguono una all’altra, con mobili preziosi, affreschi e specchi alle pareti, tutte ben illuminate, ma non vi era traccia di persona umana.

Infine Gioanì arriva ad una grande sala, al centro un lungo tavolo di legno, ma solo la parte terminale è apparecchiata per la cena con soli due posti. Sul fondo della sala c’è un grande camino col fuoco acceso e una grande pentola per fare bollire la carne.

Gioanì è curioso e dopo tutta quella scarpinata ha anche fame. Si avvicina al camino, alza il coperchio della pentola e vede un bel pezzo di carne, bollita a puntino, pronta per essere messa nel piatto, quando sente una voce tenebrosa arrivare dalla cappa del camino:

- Arda ch’a bőte 4
- Bőté, bőté, ma arda la me pignata 5

Gioanì non aveva neanche finito di rispondere, che dalla cappa casca una gamba d’uomo e si sente ancora la voce:

- Arda ch’a bőte

Ed ecco che arriva un altra gamba e per la terza volta ancora:

- Arda ch’a bőte

A questo punto dalla cappa del camino arriva il resto del cadavere. Come il corpo tocca terra, le gambe si muovono e si riuniscono formando una corpo intero.

Gioanì non si scompone minimamente, toglie la pentola dal fuoco ed entrambi vanno a tavola a cenare.
Gioanì gusta la carne e ogni tanto si lascia scappare qualche parola di elogio al misterioso cuoco, l’altro uomo invece non dice mai parola.

Terminata la cena Gioanì si dirige verso le stanze da letto, da buon montanaro è abituato ad andare a letto presto, con le galline.
Il corpo silenzioso lo segue.
Gioanì, sceglie una stanza con un letto comodo, si spoglia e si infila sotto le coperte e rapidamente si addormenta.
Il corpo cammina per la stanza facendo strani rumori, si mette a ispigota 6 il malcapitato, a tirare le coperte. Ma Gioanì non ha paura, e si addormenta di quel sonno pesante che ha chi è abituato a lavorare duro ed ha il cuore in pace.

Quando il giorno dopo sorge il sole tutto torna tranquillo ed il Palazzo è nuovamente immerso nel silenzio assoluto.
Gioanì si leva dal letto si veste e passa la giornata ad esplorare quella grande casa.

Al tramonto, avendo compreso la cerimonia, si reca nella grande sala, dove nel camino è acceso un bel fuoco arde sotto la famosa pentola; anche questa sera il tavolo è apparecchiato, ma questa volta per tre persone.

Quando si avvicina al camino sente nuovamente la voce:

- Arda ch’a bőte

Tutto sembra ripetersi come la sera prima, ma questa volta cade il cadavere intero, la voce ripete l’avviso ed ecco un’altro cadavere raggiungere l’allegra compagnia. La sera procede come il giorno prima, cena silenziosa quindi Gioanì si alza e si dirige verso la camera seguito dalle due salme.

Appena Gioanì si infila sotto le coperte il due i cadaveri si scatenano. Lo prendono con le lenzuola e lo trascinano per la casa, su e giù dalle scale, lo battono contro i muri, insomma gliene fanno vedere di tutti i colori.

Al mattino dopo Gioanì, stanco della nottata, si alza tardi e rimane quieto nel palazzo. Arriva così la famosa terza sera. La cerimonia si ripete, ma questa volta la tavola è apparecchiata per quattro e al segnale “Arda ch’a bőte” cadono uno dopo l’altro tre cadaveri.

Cena silenziosa, come al solito, poi Gioanì va a nanna come se niente fosse.
Questa è l’ultima notte. I cadaveri si scatenano in una vera e propria sarabanda e fanno di tutto per far scappare Gioanì, lo buttano perfino in una pentola di olio bollente, ma non riescono a nulla.
Quando sorge il sole la casa è tornata tranquilla e finalmente si sentono gli uccelli cantare, i fiori sbocciano ai raggi del sole e l’aria vibra nella vita rinata.

Gioanì ha rotto l’incantesimo: i tre morti sono finalmente stati liberati dal confino in quel palazzo. Dal quel momento Gioanì potrà aggiungere al suo nome l’appellativo ben guadagnato di sensa pura

Note:

    il racconto è una nota favola bergamasca trascritta in bergamasco da Antonio Tiraboschi il cui manoscrotto è conservato nella biblioteca Angelo Maj; questa è una mia versione ampliata rispetto alla trascrizione fatta dallo studioso, secondo la mia memoria del racconto di Pierina ed il mio gusto. Le frasi in dialetto sono invece prese dal testo trascritto dal Tiraboschi.
    Una favola molto simile a quella riportata dal Tiraboschi è stata riportata in italiano come prima nelle raccolte fatta da Italo Calvino “Fiabe Italiane”. La finale però, seppure simpatica, non corrisponde ai mie ricordi ne alla tradizione bergamasca che non presenta simili soluzioni umoristiche
    .

1) È la conclusione classica delle favole bergamasche: pasti o pranzi, io non ne ho mangiato nulla
2) Giovannino senza paura
3) il calzolaio
4) guarda che butto
5) buttate , buttate, ma stia attento alla mia pentola
6) pizzigottare

Argomenti:   #bergamasco ,        #favola ,        #fiaba ,        #racconto



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