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L’ABBAZIA DI MATILDE I luoghi a San Benedetto Po |
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L’Abbazia di Matilde Matilde di Canossa ebbe rapporti con molti monasteri, da Vallombrosa e Camaldoli in Toscana a San Pierremont e Orval in Lorena, donando ad essi terre, oggetti liturgici, codici miniati, e fu generosa soprattutto con quelli della Pianura Padana, i più vicini a lei, come Nonantola o Frassinoro nel Modenese, Sant’Apollonio di Canossa e San Prospero di Reggio Emilia, Sant’Andrea di Mantova; ma ebbe sempre a cuore e predilesse un’abbazia: San Benedetto Polirone. Oltre ad arricchirla con cospicue donazioni (tra le quali l’altra metà dell’isola sulla quale era stata fondata da suo nonno Tedaldo di Canossa), sostò di frequente a San Benedetto Po e nei suoi dintorni, dopo che Mantova le si era ribellata (per ben 24 anni: dal 1091 al 1114), e qui scelse di essere sepolta. Qui infatti c’erano monaci che ubbidivano alla Regola di San Benedetto e seguivano le consuetudini dei Cluniacensi, definiti “agnelli immacolati”, che con le loro preghiere riuscivano persino a liberare le anime dalle pene dell’Inferno, come allora si credeva.
I monaci infatti pregavano per Lei non solo nell’anniversario della sua morte (il 24 luglio), celebrando un ufficio come se fosse morto un abate, ma il suo nome primeggiava sull’altare maggiore con l’evangeliario da lei donato (ora a New York, e per la prima volta in Italia, in questa mostra), e per lei venne adattata l’antica “basilica” di Tedaldo, con il suo sepolcro attorniato da un notevole mosaico pavimentale con le virtù cardinali e simboli della lotta tra il bene e il male. Da Polirone sorse così quel mito di Matilde che ha attraversato tutto il corso del secondo millennio e ancora rivive. Peccato che il suo corpo, venduto in un momento tragico al papa nel 1632, non sia più nella grande arca di candido alabastro, sulla quale era scritto: Da questo marmoreo sepolcro son io racchiusa Contessa, che un dì chiamata fui Matilde. e insieme sei, dalla carne fui sciolta. Giacqui al Signore, quando mancavano otto giorni al finire di luglio, quinto mese dell'anno. Mantova, che mi avesti signora, loda i numi. Fui generosa ai monaci qui, popolo pio, memore vivi poi che il cenobio e questo sacello fondò Tedaldo, mio dolce avo. Il Cenobio di Polirone Polirone sta per Po e Lirone, i due corsi d'acqua che intorno all'anno Mille circondavano l'isola sulla quale venne fondato da Tedaldo di Canossa, nonno della contessa Matilde, l'omonimo monastero benedettino: San Benedetto Polirone. Il Po scorreva allora su di un alveo più meridionale, in parte rimasto col nome di Po Vecchio, che, dopo Guastalla, toccava Suzzara, Gonzaga, Pegognaga e Quistello, per poi congiungersi col Lirone, che invece proveniva da ovest sul percorso del Po attuale, e continuare come oggi verso Revere. Negli otto secoli della sua esistenza, dal 1007 al 1797, il monastero benedettino ha segnato il paesaggio, l'economia, la storia di questi luoghi, lasciando un'impronta profonda ben al di là di quanto — ed è tanto — è rimasto degli edifici monastici. Sono le opere idriche, gli interventi sul Po, per allontanarne il corso dal centro abitato, che i monaci compirono nel corso dei secoli; è stata la bonifica di aree un tempo paludose, la loro messa a coltura e la costruzione di una rete di ricche corti monastiche, che costituivano l'ambìta base economica del cenobio, e che ancora restano a testimoniare un millennio di operosità: dalle vicine Valverde, Bugno Martino, Corte Simeona, alle più lontane Bardella, Zovo e Gonfo.
Polirone merita ben più di una fugace visita alla mostra, ai musei e al centro storico di San Benedetto Po, ma, almeno, un'intera giornata sulle tracce di una storia e di una civiltà che compendia in sé secoli di vita della gente del Po, godibile anche noleggiando biciclette e facendo sosta nei numerosi centri di ristoro: osterie, bar, ristoranti, agriturismi.
La sede della mostra: il Refettorio Grande e l'affresco attribuito al Correggio Il refettorio era la sala dove i monaci consumavano i pasti; a Polirone, nel 1478 fu edificato con questo scopo un nuovo edificio: un salone di oltre 500 mq., diviso in quattro campate coperte da volte a crociera. I monaci vi entravano dal chiostro di San Benedetto, transitando per un vestibolo dotato di una grande fontana. Nel 1510 l’umanista Gregorio Cortese (professo a Polirone nel 1508) decise di decorare tutta la parete di fondo ovest, e chiamò per questo due artisti: il veronese Girolamo Bonsignori, che dipinse l'Ultima Cena su una tela incastrata nel muro, e, come è stato ipotizzato da Paolo Piva e confermato da Sidney Freedberg e Cecil Gould, il giovane Correggio, che avrebbe affrescato l'Architettura dipinta (scoperta e restaurata nel 1985) in cui si inserisce il Cenacolo (1514). Attualmente questa attribuzione è discussa, e diversi critici d’arte propendono per attribuire l’intera parete al Bonsignori. La grande architettura dipinta del Refettorio polironiano simula l'interno di una chiesa rinascimentale, nel quale sono dipinte le prefigurazioni bibliche del Cristo e dell'Ultima Cena: Il sacrificio di Isacco e L'Offerta di Melchisedech a monocromo, in basso, Mosè e David più sopra, due Sibille che profetizzano l'avvento del Cristo in alto. Figure di angeli sono collocate sotto le cupole. La decorazione anticipa temi della riforma protestante e dell'Evangelismo italiano di cui Cortese fu tra i principali esponenti. Alla fine del Settecento, l'abate Mauro Mari fece asportare la tela col Cenacolo del Bonsignori (poi finita con la sopressione napoleonica nel patrimonio dei D’Espagnac all'abbazia di Santa Maria della Vangadizza, a Badia Polesine, dove attualmente è conservata nel Museo civico), intonacare la parete, e aprire un finestrone centrale. Fece poi affrescare in stile neoclassico busti di personaggi che avevano illustrato la storia di San Benedetto Po: S. Simeone armeno, S. Bendetto e il Po, Dionisio Faucher, Arnoldo Wion, Lorenzo Massolo, Giambattista Folengo, Gregorio Cortese, S. Anselmo da Lucca.
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