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Palladio 500 anni

Il Palladio privato




Sul nome "Palladio"

Che cosa evocava il nome Palladio nel Veneto del Cinquecento? Innanzitutto Pallade Atena, la dea della conoscenza. Ai più colti, poteva richiamare il nome di Rutilius Taurus Aemilianus Palladius, lo scrittore di agricoltura del IV secolo molto noto nel Cinquecento. Ma esisteva un altro Palladio, per i coraggiosi che si misero alla lettura dei ventisettemila versi della smisurata neo-omerica l'Italia Liberata dai Goti, dove si narra della guerra vittoriosa dei generali bizantini Belisario e Nartece contro i Goti, data alle stampe da Trissino nel 1547 e nel 1548 dopo una lunghissima gestazione. L'Angel Palladio è l'angelo custode del capo dei buoni, il generale Belisario. A partire dal secondo libro consiglia, guida e salva la vita di Belisario e dei suoi generali da sicari e avversari, mostrando una grande competenza in accampamenti militari, strutture edilizie e conformazioni urbane. E' molto probabile che Andrea debba proprio a Trissino il nome d'arte. Anche perché nell' Italia Liberata è possibile riconoscere, in filigrana, più di un elemento personale della vita di Giangiorgio. Il tristo Agrilupo, uomo "senza religione e senza fede", impegnato a perseguitare il fratello e a spregiare il padre, ha comportamenti simili, come vedremo, a quelli di Giulio Trissino. Nell'Ottavo Libro appare Zenobia, la regina di Palmira sconfitta da Aureliano, il raro nome che Andrea darà alla sua unica figlia femmina.

Sulla famiglia di Palladio

Palladio sposa nel 1534 Allegradonna, umile figlia di un falegname di nome Marcantonio, e insieme mettono al mondo cinque figli: Leonida, Marcantonio, Orazio, Zenobia e Silla, che già dai nomi denunciano la preferenza accordata dal padre - figlio di un Pietro e nipote di un Francesco - ai campioni del mondo antico rispetto a quello cristiano.

Allegradonna: un nome vicino al nostro Letizia è quasi tutto quello che ci è dato conoscere della "muger del Paladio" che nei registri dei conti per la costruzione delle Logge di quella che sarà nota come Basilica Palladiana, incassa personalmente lo stipendio del marito assente, o ne sollecita anticipi attraverso i figli o capicantiere amici, evidentemente attenta a far quadrare un bilancio familiare mai troppo florido.

Ciò che sappiamo di Leonida, il primogenito, è che è reo confesso di un omicidio, commesso - diremmo oggi - per futili motivi. Dagli atti del processo apprendiamo che il 14 febbraio 1569 ammazza a coltellate un certo Alessandro Camera. Lo colpisce al volto al culmine di una lite scoppiata in casa della vittima quando, nell'ebbrezza generale, la moglie del padrone di casa aveva espresso l'intenzione di "tripudiare cum dicto Leonida", suscitando una violenta reazione nel marito. In un primo momento l'omicida si da alla fuga, ma poi - evidentemente ben consigliato - si costituisce, e viene processato e assolto per legittima difesa dal podestà Tommaso Morosini, lasciando più di qualche interrogativo aperto sulla imparzialità del giudizio. L'occasione in cui è maturato il delitto, la sua brutalità, il fatto che Leonida girasse armato di coltello e fosse così lesto nel farne uso, ne restituisce una immagine non rassicurante, unita al fatto che, a differenza dei suoi fratelli, non risulta aver chiaramente scelto una professione, e appare meno coinvolto negli impegni familiari, ad esempio incassando raramente gli stipendi del padre assente.

Una vita più tranquilla doveva avere invece Marc'Antonio, probabilmente il secondogenito, che risulta iscritto alla fraglia dei lapicidi nel 1555 già con il titolo di "maestro", quindi ad almeno diciotto anni compiuti. E' pagato per l'intaglio di diversi pezzi decorativi delle logge, come mascheroni o bucrani, e incassa ripetutamente lo stipendio per conto del padre fino al 1560, quando lascia Vicenza per Venezia, dove lavora nella bottega dello scultore trentino Alessandro Vittoria, un emergente nel panorama lagunare, impegnato in diversi cantieri importanti. Rientra a Vicenza alla fine degli anni Ottanta, ed è nominato per l'ultima volta nei documenti nel settembre del 1600.

Se l'inquieto Leonida deve aver preoccupato il padre, il concreto Marcantonio averlo rassicurato, la laurea in legge a Padova di Orazio nel novembre 1569 ha di certo rappresentato per Palladio una segno di promozione sociale. Orazio risulta molto coinvolto nella gestione degli affari di famiglia: si alterna, con Marcantonio e poi con Silla, nell'incassare lo stipendio paterno. E' lui a trattare la dote della sorella Zenobia nel 1564, lo stesso anno in cui scrive per conto del padre la lettera ai provveditori del duomo di Montagnana che accompagna i disegni di un nuovo coro. Ha anche velleità poetiche e firma una composizione poetica in una raccolta miscellanea che esce a Padova nel 1568, dedicata a Geronima Colonna d'Aragona. Ma nel 1569 è scoperto dal Sant'Uffizio mentre riceve libelli luterani da alcuni eretici vicentini riparati in Svizzera: ma non abbiamo notizia di conseguenze per Orazio della sua condotta, se non altro perché muore improvvisamente, due mesi e mezzo dopo il fratello Leonida. Unica figlia di Andrea e Allegradonna, Zenobia si sposa nel 1564 con l'orafo Battista della Fede. Avrà una figlia, Lavinia, che nel 1596 sposa Tomasello Tomaselli, da cui avrà ben dieci figli: Pietro, Novello, Giovanni Battista, Giustina, Elena, Ortensia, Altadonna, Anna, Ottavia, Zenobia e Ginevra. Del loro destino non abbiamo oggi alcuna notizia, eppure è quasi solo in loro che sopravvisse la terza generazione del sangue di Palladio.

Silla è il più giovane dei fratelli Palladio. Iscritto all'università di Padova, non conseguì mai la laurea. E' vicino al padre, lo accompagna, scrive per lui lettere e relazioni, ma non sembra averne acquisito genio e capacità.

Probabilmente privo della personalità di Leonida, della solidità di Marc'Antonio e della intelligenza di Orazio, come spesso succede Silla diventa il custode delle memorie familiari. Che preserva in termini commoventi, quando il 23 maggio 1591 battezza il proprio figlio illegittimo avuto da donna Isabetta, una domestica di casa, imponendo al bambino il nome di Andrea Orazio Leonida, l'intero proprio lessico familiare. Che ne sia stato di questo Andrea Palladio junior, personaggio ideale per un romanzo, le carte non dicono.

Palladio e i soldi

E' ricco Palladio? Di nascita, certamente no, ma riesce a diventarlo con il proprio lavoro? Il momento di svolta concreto della sua vita, giunge per Palladio a quarant'anni. A partire dal 1 maggio 1549 è architetto incaricato della costruzione delle Logge del palazzo della Ragione, e come tale può contare un salario di 5 scudi d'oro al mese, uno stipendio fisso che incasserà per tutta la vita. Non è molto, di poco superiore a quello di un mastro muratore e il valore reale diminuisce nel corso degli anni, perché la cifra non cresce e il potere d'acquisto è abbattuto dall'inflazione. E' anche vero però che parallelamente l'impegno e la presenza di Palladio in cantiere vanno via via scemando, soprattutto a partire dagli anni Sessanta.

All'introito costante derivante dalla Basilica, vanno via via cumulandosi redditi derivanti da altri incarichi professionali, sia pubblici che privati, anche se comunque resta l'unico incarico permanente che riesce effettivamente a conseguire. Nel 1554 e nel 1570 concorre al posto di "architetto capo" della Serenissima, ma viene sconfitto da condidati meno famosi ma più affidabili.

In definitiva, Palladio non si arricchisce con il proprio lavoro, soprattutto rispetto ad altri protagonisti della scena artistica veneziana, da Tiziano a Sansovino a Alessandro Vittoria. Del resto quello che aveva da vendere erano sostanzialmente delle idee, non particolarmente ben pagate. Una delle vie per guadagni più sostanziosi sarebbe stato proporsi come architetto-imprenditore, vale a dire controllare - più o meno alla luce del sole - buona parte del processo edilizio, dal progetto alla costruzione: ma è una strada che Palladio non percorre. Altrettanto cruciale è disporre di una rendita stabile in qualità di responsabile di un grande cantiere, ad esempio la basilica di San Pietro a Roma, o in quanto "architetto in capo" delle fabbriche di un ducato, come Giulio Romano a Mantova, o di una Repubblica, come Jacopo Sansovino a Venezia. Come abbiamo visto a Palladio quest'ultimo obiettivo riesce solo per le Logge vicentine, con un introito proporzionale alla capacità di spesa di una città di medie dimensioni. Forse anche per questo Palladio sin dagli anni Cinquanta, affianca all'architettura una attività parallela, la produzione editoriale, ma senza particolari fortune. Il suo amico poeta Giovanni Battista Maganza, nelle Rime Rustiche, lo accusa di essere uno spendaccione: "povero vecchio Andrea, quello che guadagnava lo spendeva tutto".

Sulla morte (e sul teschio) di Palladio

Di Palladio si sa solo che è morto nell'agosto del 1580. Ma esattamente quando, dove e perché resta un mistero. Il 7 luglio viene deliberato il mandato di pagamento di trenta scudi d'oro per i primi sei mesi dell'anno al servizio del cantiere delle Logge, e il 2 settembre a suo figlio Silla vengono saldati altri dieci scudi d'oro, come saldo degli ultimi due mesi di lavoro del padre. Possiamo anche essere un po' più precisi, perché dai registri dell'Accademia Olimpica, sappiamo di una riunione organizzata in gran fretta il 25 agosto, per organizzare le esequie. Paolo Gualdo, che scrive oltre trent'anni dopo, fissa la data di morte al 19 agosto, e può essere veritiero.

Ma dove è morto Palladio? Forse prima o poi lo scopriremo, ma per ora le ricerche non hanno dato alcun esito, ed è solo possibile qualche ipotesi. Palladio non risulta fra i necrologi dei Provveditori alla Sanità a Venezia, né nei libri dei defunti della parrocchia di San Samuele, dove probabilmente risiedeva in casa Contarini: avrebbe in teoria dovuto esserlo, se fosse morto in quella città, dove ormai abitava quasi stabilmente. Potrebbe essere morto a Vicenza: ma la concitazione con cui l'Accademia Olimpica organizza le esequie sembra indicare un ritardo nell'arrivo della notizia in città. Un cantiere di cui abbiamo notizia in quei mesi, a parte l'Olimpico, è quello del tempietto per Marcantonio Barbaro a Maser, e alla fine è lì che gli studiosi hanno finito per immaginarlo morire.

Una certa penombra avvolge anche il luogo della sepoltura di Palladio. Nel 1578 Silla Palladio acquista lo spazio per una tomba di famiglia in in Santa Corona a Vicenza, fra l'altare di San Giovanni e dell'Epifania, per la quale veniva anche pensata una iscrizione. In essa Palladio "architectus celeberrimus", suo figlio Silla e il genero Giambattista Della Fede ricordano Leonida, Orazio e il piccolo Enea Della Fede. L'iscrizione non sarà mai effettivamente scolpita, tuttavia nel 1845 il grande palladianista Magrini segnalava in Santa Corona la presenza di una singolare lapide, su cui era scolpito un albero di olivo, con due mani congiunte attraverso il tronco, una delle quali stringeva un ramoscello nato dal piede dell'albero. E' credibile l'ipotesi che si tratti dell'unione fra l'emblema di Palladio (l'ulivo, albero sacro a Pallade) e dei Della Fede. Il problema fu che quando il 5 marzo 1831 si sollevò la lastra, per cercare il corpo di Palladio e traslarlo nel cimitero monumentale cittadino, si trovarono ben diciotto crani umani. L'individuazione di quello palladiano fu però unanime perché come scrisse il patologo Grabner Maraschini, presente alla scena "uno per grandezza, per la pronunciata forma ovale dall'innanzi all'indietro, con la regione frontale spaziosa e depressa, per la consistenza e grossezza delle sue ossa, attirò l'ammirazione, e quantunque sia impossibile il dimostrarlo, a quasi tutti però alla vista di quel teschio sfuggì dal labbro: questa è la testa del Palladio". E fu così che il teschio del - forse - Palladio fu scortato con tutti gli onori nel cimitero municipale.

Sulla casa di Palladio a Vicenza

Sappiamo per certo dove non ha mai abitato: in quella che oggi è nota a Vicenza come "casa del Palladio". Era la residenza di un notaio, Pietro Cogollo, che nel 1559 si impegna a ristrutturarla, spendendo non meno di 250 ducati, offrendo il proprio contributo al decoro urbano in cambio della concessione della cittadinanza vicentina. Se Palladio mise mai piede in quella casa fu solo perché probabilmente ne curò il progetto, e perché ci lavorava suo figlio Orazio. Il fatto è che casa Cogollo viene inserita come "Casa d'abitazione d'Andrea Palladio in Vicenza" alla pagina 33 del nono volume (apocrifo) dell'opera del palladianista Francesco Muttoni. Sebbene prontamente smentita pochi decenni dopo, la leggenda metropolitana si alimentò per il desiderio dei suoi compatrioti di individuare la casa del proprio cittadino più famoso. Non potendo puntare, per dimensioni e evidenza toponomastica, su palazzo Chiericati o palazzo Thiene, il piccolo ma elegante edificio "borghese" sul Corso sembrava perfettamente adatto allo scopo.

Palladio non possedette mai casa a Vicenza: lo sappiamo perché non risulta negli elenchi - molto più efficaci di oggi nonostante le banche dati computerizzate - dei proprietari tenuti a pagarvi le tasse. Visse sempre in affitto, e in case diverse. Appena giunto a Vicenza, risiede col padre nella contrada del Castello, poi, per una decina d'anni, in contrada Pedemuro, nei pressi della bottega. Ne perdiamo le tracce dal matrimonio con Allegradonna, sino al 1552, quando risulta in affitto in una casa a Porta Castello, probabilmente di proprietà dei fratelli Orazio e Francesco Thiene. Quindi si sposta nell'area appena oltre ponte degli Angeli, verso Padova, che allora era conosciuta come Porsampiero: nel 1564 risulta abitare in affitto all'inizio dell'attuale via IV novembre, sulla destra, e nel 1569 si sposta sul lato opposto della strada, molto probabilmente in una delle case dei fratelli Odoardo e Teodoro Thiene.

A partire dagli anni Sessanta, comunque, Palladio risiede sempre più spesso a Venezia, per seguire i sui cantieri nella capitale, e negli anni Settanta il soggiorno deve essere stato particolarmente stabile.

E' a Venezia che muoiono Leonida e Orazio nel 1572, e che si ammala gravemente Allegradonna. Come sembra suggerire un sonetto di Maganza, è probabile che Palladio abitasse nel palazzo di Giacomo Contarini a San Samuele, personalità affascinante di collezionista d'arte ma anche cultore di scienze naturali e meccaniche che nel suo testamento richiama la propria fantastica collezione di "cose esquisite et tali che chi ben non le considera non lo potrebbe creder, così de libri a stampa come de scritti a penna, istrumenti mathematici, statue così di marmo come di bronzo, piture, minerali, pietre et secreti".

Sul carattere di Palladio

Scrive il primo biografo di Palladio, Paolo Gualdo, nel 1616: "Fu il Palladio nella conversazione piacevolissimo e facetissimo, sicchè dava estremo gusto alli gentiluomini e signori con i quali trattava, come anco agli operari, dei quali si serviva, tenendoli sempre allegri, e trattenendoli con molte piacevolezze faceva lavorassero allegrissimamente. Aveva gran gusto d'insegnare a quelli con molta carità tutti i buoni termini dell'Arte, di maniera che non vi era muratore, scarpellino o lignaiuolo che non sapesse tutte le misure, i membri et i veri termini dell'Architettura".

La popolarità di Palladio fra i muratori vicentini è in effetti registrata ancora da Inigo Jones, a Vicenza nel 1614: a lui viene indicato con orgoglio di casta il capitello angolare di palazzo Thiene come scolpito dallo stesso Palladio con le proprie mani. E nel Proemio ai lettori dei Quattro Libri è il cantiere, e non la biblioteca, che Andrea dichiara come fonte del proprio lessico tecnico: "fuggirò la lunghezza delle parole ... e mi servirò di quei nomi, che gli artefici hoggidì comunemente usano".

Altrettanto a proprio agio, Palladio si muove nel mondo dei propri ricchi committenti, grazie alla sua formazione "trissiniana" e alla acquisita consuetudine con ambiti sofisticati. Vasari sente il bisogno di concludere la Vita palladiana scrivendo: "Non tacerò che a tanta virtù ha congiunta una sì affabile e gentil natura, che lo rende appresso d'ognuno amabilissimo".

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