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Agata Il sole nelle vene Di Adriana Di Mauro
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Era nata in Sicilia in un pomeriggio col cielo acceso di fuoco rosso, in una casa da cui si vedeva il mare, tra le rocce antiche che si stagliavano contro l’orizzonte. Nonno Raziu le raccontava di quella sera, dell’impeto del mare e della dolcezza delle stelle riflesse negli occhi della madre. Era stata a lungo attesa, avevano lottato per lei e alla fine era giunta in un giorno particolare, il giorno di Sant’Agata, quando la città era un turbinio di gente e ai botti della festa si univano quelli del vulcano… tutto quel fermento sembrava presagire quello che sarebbe stato il destino dell’unica erede della famiglia Patanè. “Sant’Aituzza ni fici a razia” gridavano per i corridoi del palazzo di famiglia. Orazio Patanè aveva sempre odiato il figlio quanto ne aveva amato la madre, morta di parto quarant’anni’anni prima e ora quella bambina sembrava dovesse sostituire l’amore perso tanti anni addietro. La bambina era riccioluta e con tanti capelli da sembrare di almeno un mese d’età. “Bedda tracchiuta è, barone!” aveva esclamato la levatrice posandogliela tra le braccia. L’uomo aveva sorriso, con in viso la soddisfazione di come se fosse stato lui stesso a crearla, come se fosse il solo artefice di quell’evento, come se le sue preghiere avessero influito su ogni cosa, ogni evento che aveva fatto sì che la bambina nascesse il giorno stesso in cui la moglie era morta. “Chistu è u vastuni da me vicchiania…” aveva dichiarato con la bambina stretta al petto. “Donna Lucia v’arringraziu” aveva detto alla nuora “Da oggi il castello ha di nuovo la sua regina!”. Lucia aveva guardato ora l’uomo ora la figlia, con in petto la consapevolezza che apparteneva più a lui che alla madre, come se gli fosse stata predestinata ancora prima della nascita. Filippo aveva lo sguardo vuoto, spento da anni di indifferenza paterna. Sposare Lucia e infine riuscire ad avere un figlio erano l’unica possibilità per restare nel testamento paterno… la bambina era arrivata tardi, quando aveva cominciato a temere di non riuscire più. Non amava la moglie e nemmeno la figlia, loro rappresentavano solo l’unica possibilità per poter mantenere il suo stato sociale, per il resto era ben felice di defilarsi dalle loro vite. Da quella circostanza, contava solo avere la sua rendita mensile. Da quel momento Agata era stata allevata come la figlia di un re, con tutto il meglio che si potesse avere all’epoca, mentre il padre continuava a spendere denaro con prostitute e gioco d’azzardo e la madre girava il mondo, sperando di attenuare il dolore nelle avventure di viaggio. Il vecchio don Raziu era felice come mai aveva creduto di poter ancora essere… Della santa aveva la bellezza e la ricchezza, oltre al nome. I capelli di lucido velluto dorato, una massa compatta che sembrava vivere ad ogni movimento del capo… occhi verdi, quasi vitrei e una pelle di pesca e porcellana che non aveva nulla da invidiare a quella della stessa statua, tanto era levigata e priva di imperfezioni… ”Non è na scimmia pilusa come le sue compagne!” esclamava ridendo don Raziu guardandola giocare insieme alle altre bambine del collegio cattolico. In effetti c’era in lei qualcosa di diverso, che la distingueva dalla massa, come se fosse superiore per patrimonio genetico oltre che sociale… si elevava su tutti, Agata, camminando fiera al fianco del nonno, mostrando nel suo aspetto oltre che nei modi, lontane origini normanne. Agata era cresciuta lontana dal padre, che aveva preferito rinunciare definitivamente al suo ruolo genitoriale, affidandolo al vecchio barone e con una madre quasi invisibile, che non osava opporsi alla volontà del suocero e non riusciva a stabilire nessun genere di rapporto con la figlia dalla quale aveva vissuto lontana per tanti anni… erano due conviventi i cui contatti erano regolati da una perfetta educazione e una conversazione colta. Questa situazione aveva fatto capire alla ragazzina l’immenso potere che le era stato dato… ben presto aveva imparato ad usare la sua influenza sul nonno, che sembrava non avere altra ragione di vita del renderla felice e accontentarla in ogni capriccio. Col tempo questo suo ascendente si era esteso anche sugli uomini, che, benché di età disparata, sembravano tutti avere un debole per lei, che aveva capito come farne uso a proprio vantaggio… il barone, troppo innamorato della “sua” creatura non vedeva, non si accorgeva della vera natura di Agata… Gli occhi non vedevano, non riuscivano a percepire quelle vibrazioni che scuotevano l’anima e la carne di Agata quando si trovava vicina a un uomo… era una sensazione nuova, un calore che piano nasceva dal ventre e finiva sulle guance, accendendole di fuoco… abbassava lo sguardo di fronte al nonno. “ Taliati come s’affrunta!” gridava orgoglioso, interpretando quel rossore come timidezza… ma non vedeva la realtà. Agata amava il suo corpo, aveva cominciato presto ad accarezzarlo, a rimirarlo a lungo davanti allo specchio, a lasciare che la cameriera lo lavasse e le facesse i complimenti per com’era ben fatto. Somigliava a quello della madre, generoso, morbido ma con tutti i pregi della giovinezza. La notte, quando nessuno poteva vederla e la luna splendeva riflessa sul mare calmo si sporgeva dal balcone, e lasciava che il caldo asciugasse il suo corpo sudato… i seni offerti al vento come tributo alla natura per la sua generosità. Sfiorata dall’aria calda, immaginava quella sensazione simile al tocco delle mani di un uomo, alle labbra umide che baciassero i capezzoli… Stava lì per ore, stregata dalla luna e stregata dal piacere che il suo corpo riusciva a farle provare. Nella scuola cattolica le avevano insegnato che tutto quello era peccato…e le piaceva. Agata amava il peccato. Argomenti: #racconto , #sicilia Leggi tutti gli articoli di Adriana Di Mauro (n° articoli 11) |
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