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Lo sbuffo

Voglio poter morire tra i miei familiari


Di Giovanni Gelmini

“Voglio poter morire tra i miei familiari”. Questo è il desiderio di Hannah Jones, una tredicenne britannica malata terminale di leucemia e con una gravissima patologia al cuore indotta dalle cure che hanno fino ad ora segnato la sua vita.

Quanti di noi sperano in una morte, che non intacchi la qualità della vita? Perché dobbiamo credere che prolungare il respiro di un corpo sia un’esigenza etica e morale a cui dobbiamo sottostare? Perché siamo così pieni di noi stessi da dover decidere per gli altri?

Queste sono le domande che voglio porvi oggi.

Da mesi siamo subissati di discussioni, di dotte elucubrazioni sul diritto di rinunciare ad una assistenza invasiva, che non permette una vita reale, ma che mantiene in efficienza le macchine di un ospedale e un corpo, solo come una macchina, senza alcun segno di umanità. Tutto attraverso carte bollate, dichiarazioni dello Zar di Lombardia e una continua, quanto inutile, cronaca giornaliera dei fatti attraverso i mass media: sappiamo tutto su quel povero corpo che giace in una clinica di Lecco, ma sappiamo davvero le sofferenze che può avere?

Quanto è successo in Inghilterra ci deve far riflettere. Hannah Jones ha detto no al trapianto cardiaco che i sanitari volevano fare sul suo corpo; le sue parole sono emblematiche: “Ne ho avuto abbastanza di ospedali e volevo tornare a casa”. Il trapianto le avrebbe permesso di allungare di qualche mese la sua terribile esistenza, niente più. Fin dall’infanzia ha passato la sua vita in ospedale per cercare di sopravvivere alla leucemia; per curare la cardiomiopatia ha già subito tre interventi di applicazione di peacemaker.
Ma la ragazzina ha detto no, un no consapevole che ha convinto legali e autorità che hanno deciso di seguire il suo desiderio.

Perché in Italia, che vorrebbe essere la culla della civiltà, non si rispetta il desiderio formatosi in modo consapevole delle persone?
Perché tonache nere e camici bianchi si intromettono in quello che deve essere un problema di coscienza individuale e che, come tale, deve essere rispettato e compreso?

In Italia non siamo capaci di credere che le persone siano consapevoli e capaci di decidere per se stesse; se deve sempre pensare che “qualcun altro” abbia il diritto di decidere per loro.
I politici, invece, sono incapaci di decidere. Da anni ormai si parla di un vuoto legislativo che deve essere colmato e così il vuoto rimane, ma la giustizia non può esimersi dal suo dovere di rispondere ai quesiti che vengono a lei posti. Cosi emette sentenze, basandosi sulle regole fissate dalla costituzione e dalle leggi generali a cui è tenuta fare riferimento. Per fortuna che è ancora indipendente e può farlo.

Ci troviamo quindi di fronte a provvedimenti che creano “giurisprudenza” su fatti che troppo spesso possono essere confusi con l’eutanasia.
Ultimo il decreto del giudice di Modena, che ha riconosciuto il diritto a esprimere la propria volontà a rifiutare cure invasive in caso di gravissime malattie o incidenti futuri e ha riconosciuto nella moglie, o nella figlia, l’eventuale “amministratore di sostegno” in grado, in caso di necessità, di decidere per lui.
Questo non è il primo caso di decisione del giudice che va “oltre” la legge, ma la colpa è solo dei politici inetti, capaci solo di discutere, senza produrre nulla.
Oggi, con una sanità che ha a disposizione mezzi per prolungare la vita artificialmente di decenni, anche non in presenza di vitalità, una legge è necessaria e se non c’è è solo colpa dei politici e delle inframmettenze di chi dovrebbe occuparsi non di “Cesare”, ma di formare le coscienze.

Interessante è quanto afferma la storica cattolica Lucetta Scaraffia: “La decisione delle autorità sanitarie britanniche di accettare che una ragazzina di 13 anni rifiutasse un trapianto salvavita è sacrosanta, le persone possono decidere. Hanno il diritto di rifiutare. E poi chi lo dice che senza il trapianto sia destinata a morire. Sappiamo bene quante volte i medici sbaglino facendo questo tipo di previsioni. Questo non è un caso di eutanasia, ma di accanimento terapeutico”.

È troppo difficile forse avere un limite teorico preciso per distinguere quando ci si trovi di fronte all’eutanasia o all’esigenza far cessare l’accanimento terapeutico. D’altra parte se non si regolamenta in modo preciso è anche facile che qualcuno, che è “interessato alla morte del soggetto”, approfitti del suo potere di “amministratore di sostegno”. È evidente che occorre che si costruiscano percorsi, come in Inghilterra, per capire se i sanitari possono procedere o meno, ma preposto a questo non può essere né un medico, né uno che possa avere interessi personali, non di pietà, nella decisione.

Di una cosa sono certo: non riconosco al Vaticano il diritto di decidere per me, perché non ne ha titolo: non mi rappresenta! Questo non penso sia solo una mia posizione.

Argomenti:   #accanimento terapeutico ,        #attualità ,        #chiesa ,        #chiesa cattolica ,        #etica ,        #eutanasia ,        #morte ,        #sanità



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