REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno IV n° 12 DICEMBRE 2008 TERZA PAGINA


La montagna intagliata
Di Adriana Libretti



“Un segno noi siamo, che nulla indica”. (Hölderlin)

Era tempo di accogliere una storia nuova, che sapesse farsi largo in quella sua vita, così a lungo compressa.
Da anni, a Carla Giovanni capitava di ripercorrere il medesimo tragitto; forse se n’era liberata una volta per tutte. A bordo della corriera blu e via, fuori dalla città, con un bagaglio leggero.

Alla meglio sgombrata la casa, per lo più regalandone oggetti e arredi, aveva pressoché cancellato dalla mente l’indirizzo che per anni lei aveva riportato su lettere e documenti; abitava tra i monti, adesso; l’asfalto nemmeno fin lì arrivava.

Guardò fuori: mulinelli di neve nell’aria, cielo bianco, scintillante di mistero.
Non sapeva come sarebbero andate le cose, in solitudine. Non conosceva nessuno, ma il coraggio le stava crescendo in grembo.

Fin dai primi giorni, Carla aveva preso a studiare i nomi delle piante che le stavano attorno e dopo circa una settimana, a corto di provviste e di denari, era scesa in paese a fare la spesa con i pochi restanti e a cercare un qualsiasi lavoro.
Sulla piazzetta della chiesa, aveva seguito l’indicazione di una freccia di cartone fosforescente.

Spinta la porta bugnata consumata dal gelo invernale, si era ritrovata in una saletta un poco al di sotto della strada, dove i raggi del sole arrivavano a stento, in mezzo a curiosi oggetti di legno, a radici tramutate in buffe creature. Ne aveva così conosciuto l’artefice: un uomo dallo sguardo trasparente, i lunghi baffi a virgola, robusto e brizzolato; un intagliatore di tasso, noce, faggio ed altre essenze ancora, ma soprattutto di pino e di abete.

Piero, questo il nome scandito dall’uomo mentre le stringeva la mano, l’aveva intrattenuta con racconti di alberi conosciuti da sempre, cui aveva persino attribuito nomi squisitamente umani. Il fatto era che lui, alcuni alberi, li sapeva abitati.
Non da fate o gnomi, non aveva creduto neppure da bambino a simili sciocchezze, ma da anime di persone che avevano abbandonato il corpo.

C’era Sabino, un larice deciduo che s’innalzava a 1910 metri di altezza: più di mille anni, aveva! Sabino pelo-rosso: quante doveva averne viste! Di certo gli era capitato di assistere impotente al taglio degli altri larici, alla luttuosa caduta degli alberi compagni. E poi, tra il 1200 e il 1400, appena sotto il ghiacciaio, un paio di piccoli ospizi erano sorti ad accogliere gente di montagna che andava e veniva; eppure adesso non ne rimaneva traccia. Anche le malghe dei pastori si erano disgregate, forse se ne poteva desumere l’esistenza da qualche rara pietra squadrata, rotolata giù nel vallone, sospinta dalla forza di vento, acqua, neve.

Sabino mormorava a Piero che gli anni cancellano ogni cosa, che mai niente permane, che persino le cime si consumano. Pur triste, Sabino non avrebbe mai rinunciato alla sua lunga vita, per questo dono ringraziava ogni giorno il Creatore.
L’antica forma umana del suo ospite si era disfatta a causa di una lama, che un nemico gli aveva conficcato nella gola, proprio lì nei pressi, e subito egli aveva trovato riparo nell’imponente larice deciduo, dentro Sabino.
L’anima ritrovava voce quando il ghiacciaio s’illuminava al chiarore della luna tonda, una notte al mese. Cantava, l’ospite di Sabino, per la volpe argentata e gli stambecchi, per la marmotta e la poiana.

Carla ascoltava rapita Piero, per la prima volta avvertiva, delle parole, il profumo. Odoravano ora di mirtillo, ora di fungo; di fieno, di zucca, di lichene. Quelle parole di aria balsamica erano da respirare ad una ad una, allargavano i polmoni, scaldavano il cuore.

A tradimento era calata la sera; avrebbe dovuto attendere l’indomani per raggiungere la baita in cui viveva. Chiese dell’albero di tasso e le fu descritta quell’essenza morbida ma tenace, da intagliare a fatica. Chiese delle robinie, dei cedri del Libano, delle acacie, dei pruni, delle sequoie giganti. Davanti a sé aveva finalmente qualcuno con cui condividere una passione, che come lei considerava gli alberi gli unici testimoni affidabili del tempo.

Piero narrò del Quercus Pubescens Josephine, di anni quattrocento, una quercia lanuginosa dai rami ritorti alta quasi venticinque metri, aggrappata a una rupe; parlò a Carla della sua capacità d’incantare, in virtù della chioma, i cacciatori, che sotto di lei andavano sempre sbagliando la mira. Dentro di lei, una giovane donna, morta dando la vita.
Sulle foglie di Josephine, Piero faceva passare i polpastrelli, e un batuffolo, allora, si formava. Maschi e femmine, i fiori gialli e rossi di lei, madre prolifica, che di ghiande si adornava ogni autunno, alla vigilia di quel parto che era stato, all’infelice puerpera che la abitava da oltre un secolo, fatale.

- Ah, le amate querce! - sospirò Piero. I re amministravano giustizia sotto gli alberi - riprese. Grazie al fruscio delle foglie della Quercia Sacra a Zeus, in Grecia, a Dodona, tre sacerdotesse ne interpretavano le volontà. Perché spesso è nelle piante che si nascondono gli oracoli - tenne a precisare -.

La notte affondava nel nero le radici, le luci dei lampioni avevano l’aureola. - Puoi fermarti da me - disse Piero- e Carla gli rispose di sì.
Dormì in soffitta in un letto di massello di noce, sotto le grandi travi.
La mattina seguente Piero spiegò che quelle erano di abete, e parlò anche dei boschi sacri, del noce considerato a lungo albero delle streghe; del frassino, del tiglio, del cipresso, delle differenti cortecce, delle pugnalate spesso mortali inferte dai fulmini. Quando trovava una pianta morta, Piero, dopo averla segata alla base, le incideva nel moncone a terra i lineamenti, lasciando che l’espressione già contenuta nel tronco affiorasse.

Il sole alto, decisero d’inoltrarsi nel bosco. Le loro ombre si proiettavano nette sul terreno. Ancora più intagliato il sentiero, ai passi loro.
Gli alberi conosciuti li stavano aspettando.
Sabino arrossì nell’udire i complimenti che gli rivolse Carla, mentre Josephine non si stancò di ondeggiare e Piero, tra le braccia, la strinse.

La sorpresa più grande però, la riservò Andrea, il fiero peccio di trecentocinquanta anni, alla cui specie appartengono gli alberi di Natale.
Si diceva avesse fatto gola a Stradivari, che se n’era innamorato e per anni l’aveva invano implorato di dargli un violino.
Dentro Andrea, ci stava una bimba che giocava alle pigne: altroché violino!
Andrea era la casa della bambina rimasta senza fiato.
La sua anima, di resina da quando lo abitava, non era mai più stata in affanno!
Sotto gli aghi del peccio Andrea, ma sotto sotto, quattro porcini da favola. Anzi, per meglio dire, da grigliata.

E così fu il pranzo di Carla e Piero, al ritorno dalla passeggiata, e poi fu ancora la baita tra le nuvole, dove Carla, seppure nei ritagli di tempo, poiché grazie a Piero le riuscì di trovare lavoro al Bar Centrale, approfondì gli studi di botanica. Sola di nuovo, è vero, ma affiancata.
Tale e quale a noi, alberi che saremo.


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