REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno V n° 1 GENNAIO 2009 TERZA PAGINA


La ricerca di nuove esperienze negli altrove del mondo
Estratto dal testo critico in catalogo di "L'artista viaggiatore Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani" - Ravenna, MAR Museo d'Arte della città 22 febbraio - 21 giugno 2009
Di Gualtiero Harrison



Non cesseremo di esplorare
e il fine di ogni nostra esplorazione
sarà là dove siamo partiti
e sapremo il luogo per la prima volta

Thomas S. Elio
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Era il 1951. A Brema, nel Planetario, venne condotto un esperimento su un uccello, che d’inverno “viaggia” dalla Germania alla Valle del Nilo: la bigiarella. Sul soffitto emisferico fecero sfilare, dinanzi all’uccello migratore, la volta celeste con le costellazioni che vanno dal cielo tedesco a quello egiziano. La proiezione cinematografica del moto degli astri raffigurava ciò che ogni bigiarella percepisce ad occhio nudo durante la sua esistenza di stagionali transumanze tra nord e sud; e l’uccello di Brema seguì senza défaillance la carta celeste del Planetario e si posò esattamente sotto il cielo di Luxor.
Un grande antropologo e filosofo, Edgar Morin1E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Milano, Sperling&Kupfer, 1993 (1990), commentando l’esperimento - “che prova che la bigiarella aveva in un certo modo, il cielo nella sua testa” - rileva che l’ordine cosmico si trova integrato all’interno dell’organizzazione delle specie viventi, nel loro sistema auto-organizzatore, “ciò che permette loro di adattarsi e di sopravvivere”. Il sistema proprio ed unico dell’uomo - e che lo fa distinguere dal resto del mondo animale perché ne costituisce la caratteristica principale nel comportamento di specie - è ciò che gli antropologi chiamano “cultura”: intendendo secondo una classica definizione, tutto ciò che ogni uomo deve imparare a fare per essere membro d’un gruppo sociale.
Include, quindi, tutta la conoscenza, gli intendimenti comuni e le aspettative storiche che la gente di un dato gruppo sociale condivide; e che trasmette, attraverso il processo educativo, alle generazioni successive2D. Maldelbaum, On the Study of National Character, in "American Anthropologist", vol. 55, 1953, pp.174-187.

Come accordare però tale concezione generale della cultura - come cultura umana - colla manifestazione di grande varietà delle culture particolari, e cioè degli speciali modi di vita selettivi dell’azione esterna e del sentimento interiore, del pensiero astratto e della raffigurazione simbolica delle varie società? Continuando a usare la formulazione teorica proposta da David Maldelbaum, diventa essenziale interrogarsi sulla natura relazionale delle somiglianze e delle differenze nelle condotte collettive connesse alle corrispondenti rappresentazioni comunicative che caratterizzano le identità. Ogni gruppo ha inventato un differente set di risposte agli stessi problemi che tutti i gruppi devono affrontare. E sono problemi sollevati non solo e non tanto dalla comune struttura biologica degli uomini quanto piuttosto dal loro “destino”: di essere cioè insieme creature e creatori di cultura. Ma cosa accade quando i membri di un certo gruppo sociale vengono a contatto con gli intendimenti, le aspettative e le espressioni inventati da altri soggetti per ciò portatori d’una cultura diversa?

All’alba della Modernità, più che le cose ed i manufatti, furono le parole e le idee a gettare quel ponte comunicativo tra un punto e l’altro dell’antica “spianata terrestre” - così come l’aveva concepita in Europa la cosmografia elaborata nel suo Medio Evo - ma che s’era già fatta, nel frattempo e proprio per ciò, ellissoide terrestre; e non sarà per caso se a Norimberga, proprio in quel 1492, Martin Behaim porterà a termine il suo progetto “nel contempo semplice e grandioso” di costruire il primo mappamondo sferico dl pianeta: in quello stesso anno in cui Cristoforo Colombo decide di raggiungere per mare l’altra metà del globo.

1492: l’anno delle tre caravelle che hanno incontrato il Nuovo Mondo, e lo hanno “scoperto” ai conquistadores che immediatamente sarebbero sopravvenuti. Ma quale anno fatidico di tempi nuovi dovremmo pur ricordarlo perché nel mentre il Mondo Vecchio ultimava la sua Reconquista, con la disfatta a Granada dell’ultimo regno islamico; e nel mentre ancora, con la cacciata degli Ebrei dalla Spagna, completava l’unità e l’unicità cattolicissima del suo côté occidentale.

Il 12 ottobre Cristoforo Colombo inginocchiato sulla spiaggia d’un’isola, che aveva appena battezzato San Salvador, così aveva pregato Iddio Onnipotente ed Eterno: “Tu hai permesso che, tramite il più umile dei Tuoi schiavi, il Tuo sacro nome possa essere conosciuto e diffuso in questa metà finora nascosta del Tuo impero!”. E’ poco rilevante che per lui, in quell’altra mezza parte del globo avrebbe dovuto stare, d’accordo con Marco Polo, il Catai, o altre terre ma alle sue immediate vicinanze; e per ciò appunto lui s’incaponiva a cogliere anche il più minuto segnale che potesse permettergli di confermare tale suo radicato “convincimento”.
Quel che da quel giorno veramente conta è come venne - da allora e per cinque secoli - “contornato lo sconosciuto”3 J. Heers, Cristoforo Colombo, Milano, Rusconi, 1983 (1981). Ed il raffigurare, appena un anno dopo con così tanta fantasia questa parte nuova del mondo – illustrandola con immagini di uomini, non solo divoratori delle carni d’altri uomini e bevitori del loro sangue, ma con il volto impresso tra i seni, o con un solo occhio al centro della fronte, o con la testa di cane, fu l’autentica “scoperta” di quel che, fino ad allora era stato l’ignoto non perché nascosto, ma perché non ancora così raccontato.
Ed il viaggio si apre allora su esperienze di alterità sempre più radicali che immortalano Colombo come colui che non solo ha stabilito il primo contatto tra due mondi: perché gli ricama addosso la realizzazione del più notevole di tutti i viaggi della Modernità; e da quel momento in poi l’avventura umana fu destinata a trapassare attraverso il sogno della traversata, da un mondo e l’altro verso l’infinito, sino a delineare “le coordinate d’una nuova pratica europea della rappresentazione”4S. Greenblatt, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, il Mulino, .

L’essenza del viaggio s’è, insomma, incarnata in quella della scoperta. Fino al 1492, solo pochissimi ardimentosi avevano arrischiato di varcare le frontiere dell’isolamento nel quale si viveva nel nostro pianeta. Il mondo era molto piccolo ed estremamente frammentato. Da allora, invece, il viaggio divenne il paradigma della conoscenza, né ha mai più cessato di esserlo nel corso dei successivi cinque secoli: per terra e per mare, nell’aria e nello spazio extraterrestre, gli obiettivi sono rimasti gli stessi anche se son cambiati i mezzi. Alcuni hanno corrisposto a leonardesche chimere, altri hanno attuato oggetti che neppure le fantasie del passato avevano fatto esistere nell’immaginazione dei più remoti viaggiatori 5J-P. Duviols, Le Mirroir du Nouveau Monde, Paris, Presses universitaires de Paris-Sorbonne, .

Narra, però, Vasari di Donatello e Brunelleschi come dei primi artisti della storia europea a mettersi in cammino “per seguir vertute e canoscenza”: sospinti, da quel desiderio di libertà che rinasceva ai loro tempi. Recatisi a Roma ne conobbero le rovine, e non badando al tempo né al denaro fecero dissotterrare capitelli e colonne, per poterli studiare e disegnare. Anche se la loro arte, così come quella di tanti altri loro coevi è ben altra cosa “d’un semplice ritorno al mondo apparentemente immobile dell’Antichità”; perché la rinascenza piuttosto consiste proprio nell’aver gettato le basi del futuro suscitando nei diversi domini dell’essere e del sapere umano, “più interrogativi che risposte”: fu piuttosto frequentazione della modernità europea che sopraggiungeva “per conciliare unità e diversità”6F. Lestringat, Des sauvages et des homes, in “D’un regard l’autre”: l’exposition-manifeste du .

Ed in ogni modo vale per questi uomini, d’una emergente Europa, quel che costituisce la specificità per gli uomini di ogni altra particolare epoca in ogni altra parte dell’ecumene: sempre l’atteggiamento che si elabora per relazionarsi al mondo corrisponde alla concezione iconica con cui ce lo si rappresenta, e proprio secondo la propria epocale proiezione grafica che raffigura lo stare dell’uomo nello spazio cui, per altro, si sente d’appartenere.

Gli artisti contemporanei di Cristoforo Colombo furono capaci di trasformare nel verso della “proiezione prospettica” le loro precedenti rappresentazioni visive perché anch’essi intrapresero, con la loro sensibilità emotiva, la stessa lotta alla quale gli esploratori, coll’ormai acquisita esperienza della loro “arte del viaggiare”, s’erano destinati per schiudere all’umanità “le porte della terra e dell’universo”: e per costruire la strada verso un mondo in cui gli uomini si facessero capaci di aprire anche se stessi per comunicare, per conoscersi e insieme progredire.
Si può riconnettere a questo viaggio a Roma, antesignano delle successive pratiche del viaggiare coltivate dagli artisti del XX secolo scorso e di quello precedente, il contributo antropologico alla mostra su “L’Artista Viaggiatore” dedicata al “recupero memoriale” d’una estetica che si sviluppa a seguito del vagabondare. Perché se è vero che gli artisti europei (alcuni almeno) hanno viaggiato molto, i loro sono stati soprattutto viaggi di formazione: al modo di quello romano dei due italiani rinascimentali; e forse perché i Musei non esistevano ancora, a determinare in modo essenziale la relazione che noi pratichiamo con le opere d’arte e che, avviata dalla civiltà dell’Europa moderna.
Da due secoli si “intellettualizza” sempre più, l’Ottocento ha vissuto dei musei - come diceva André Malraux - nel senso che essi “hanno imposto allo spettatore una relazione affatto nuova con l’opera d’arte”: quando al godimento della vista dobbiamo aggiungere la successione delle scuole che ci richiede la “coscienza d’una dobbiamo aggiungere la successione delle scuole che ci richiede la “coscienza d’una ricerca appassionata”: “una ricreazione dell’universo di fronte alla creazione”7A. Malraux, Il Museo dei Musei, Milano, Arnoldo Mondadori, 1957 (1951).
Il “viaggio artistico” dell’Ottocento ha allora in un certo senso “completato” la percezione museale dell’arte, se si può dire che, rimanendo a Parigi, Baudelaire non ha visto Pier della Francesca, Michelangelo, Masaccio. In ogni caso il confronto d’un quadro del Louvre con un dipinto di Arezzo, di Roma, di Firenze: sarebbe stato “il confronto tra un quadro ed un ricordo”. Oggi le conoscenze di un turista vacanziero sono più estese di quelle di coloro le cui riflessioni sull’arte “rimangono per noi rivelatrici o significative” - come seguita a dire Malraux - ma i cui punti di riferimento sono stati limtati a due o tre musei, una certa quantità di fotografie, qualche incisione. Il turista vacanziero invece ha la ventura di esistere in un’era in cui la sua esplorazione artistica del mondo gli fa ammassare anno dopo anno, viaggio dopo viaggio, la riunione sterminata di tanti capolavori, a cui però mancheranno quei pochi contenuti nel museo della città in cui continua a vivere ed a ritornare a fine viaggio.

I tedeschi chiamano passione del vagare - Wanderlust - questo affascinante tema filtrato dal linguaggio dell’arte, ma che si può anche leggere contestualizzandolo in questa più recente storia che ho appena finito di narrare.
La Wanderlust dell’artista tuttavia è ben altra faccenda: quando, durante questi ultimi due secoli della nostra era, ha stimolato i più disparati palesamenti artistici ma che, appunto, oggi è simultanea e concomitante a quell’altra dell’individuo che viaggia durante le sue ferie, e che va chiaramente distinto dall’artista-viaggiatore, che muovendosi, invece, lavora!
Ma sarà poi vero che per profondità dei contatti che quest’ultimo stabilisce con i luoghi che visita e per la sua passione per l’alterità umana che incontra, l’artista viva la sua esperienza in maniera così tanto inconciliabile con quella che sta vivendo l’altro?
L’animo umano dell’uno così come quello dell’altro sono stati, in entrambi i casi “magicamente” sollecitati a vagabondare, tornando all’usanza antica di quel comune loro progenitore che ha continuato a muoversi per centinaia e centinaia di migliaia di anni, e che quindi potrebbe indurci all’espediente retorico di tornare ad unificare tutti noi, suoi discendenti, nella stessa specie di homo migrans , la cui differenziale potenzialità simbolica si attualizza in una medesima “intenzionalità al muoversi verso una meta solo ipoteticamente pre-definita” […].


1) E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Milano, Sperling&Kupfer, 1993 (1990)
2) D. Maldelbaum, On the Study of National Character, in "American Anthropologist", vol. 55, 1953, pp.174-187
3) J. Heers, Cristoforo Colombo, Milano, Rusconi, 1983 (1981)
4) S. Greenblatt, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, il Mulino, 1994 (1991)
5) J-P. Duviols, Le Mirroir du Nouveau Monde, Paris, Presses universitaires de Paris-Sorbonne, 2006
6) F. Lestringat, Des sauvages et des homes, in “D’un regard l’autre”: l’exposition-manifeste du muse du quai Branly, septembre 2006, pp. 18-26
7) A. Malraux, Il Museo dei Musei, Milano, Arnoldo Mondadori, 1957 (1951)

 


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