È uscita, in quattro volumi, l’Opera di Primo Levi e me la sono comprata con soddisfazione, perché mi piace come questo scrittore tratteggia la realtà che vede: scrive come usasse la tecnica dell’acquerello, in modo diretto e semplice, apparentemente, come si deve fare con l’acquerello, senza possibilità di correggere.
Ma oggi non voglio fare una recensione, voglio invece scrivere dei pensieri che ho fatto leggendo il breve racconto “La storia di Avrom”. Ecco l’inizio:“Accade sovente, in questi tempi, di ascoltare gente che dice di vergognarsi di essere italiana. In realtà abbiamo buone ragioni di vergognarci: prima fra tutte, il non essere stati capaci di esprimere una classe politica che ci rappresenti, e di tollerarne da trent'anni invece una che non ci rappresenta.” Da quando Primo Levi ha scritto questo, sono sicuramente passati altri decenni, forse altri trent’anni, e non è certo cambiato nulla, anzi tutti affermano che la scollatura tra Italiani e politici si è approfondita.
A questo punto Primo Levi passa a raccontare la storia di Avron e la introduce con queste parole: “È una storia che mi piace perché contiene un'immagine del nostro paese visto da occhi ingenui e stranieri, in una luce ferma di salvazione, e visto inoltre nella sua ora più bella.”Devo dire che penso anch’io che il dibattito politico oggi sembra proprio mostrare l’opposto di quella che è sempre stata l’immagine degli italiani, non solo all’estero, ma anche in Italia.
Chi è Avron?
Un ragazzino polacco ed ebreo, che nel ’39 vive l’invasione della Polonia da parte dei nazisti. A differenza dei suoi famigliari, che come tutti gli ebrei si nascondono, Avrom si “ mimetizzò sul fondo della piccola malavita locale” e vive come può; ma la cosa che mi ha fatto sobbalzare e ha confermato i miei ricordi è quando Levi scrive “finché non venne a sapere che a Leopoli c'era una caserma di italiani... in città si sparse immediatamente la voce che i soldati italiani erano diversi dai tedeschi, che erano di buon cuore, andavano con le ragazze, e non stavano a guardare tanto per il sottile in fatto di disciplina militare, di permessi e di divieti”: gli italiani che ho conosciuto io da ragazzo! Bonaccioni, galli, magari sbruffoni, ma mai cattivi, assolutamente non razzisti.
Se le leggi razziali sono state fatte dal Duce, sono state seguite a malincuore da chi le ha dovute applicare, salvo un manipolo di pochi scalmanati, ma quelli ci sono sempre. La popolazione ha invece cercato di aiutare i perseguitati, a volte anche con grave rischio per se stessi. Questo è ampiamente dimostrato, non solo nella storia di Avron (N.d.R. ne scriva ancora Primo Levi di cose simili), ma anche dalla storia.
Avron arriva in Italia al seguito della ritirata delle truppe italiane. Ma l’8 settembre lo mette nei guai, assieme ai suoi compagni militari sta per essere deportato in Germania. Decide di buttarsi dal treno per sfuggire al destino del lager che lo aspettava. Un militare gli offre “una lettera per i suoi in Canavese” e i suoi lo accolgono gli danno da lavorare, ma il parroco si accorge che è intelligente e allora “lo mise alla scuola dei preti”.
Gli italiani di oggi sono questi o sono quelli che gridano “al rumeno”, “all’extra comunitario”? Ci identifichiamo con i “rasati” che hanno aggredito il ragazzo etiope a Roma?
Oggi sentiamo in continuazione notizie di stupri, aggressioni e, secondo le notizie, sembra che siano solo loro, i rumeni, i magrebini, i negri, gli albanesi... i cattivi, i delinquenti, ma non è così?
La maggior parte degli stupri avviene nell’ambito familiare: questo è quello che si legge nelle statistiche della criminalità, anche se evidentemente ai nostri giornalisti questo non piace, perché ci parlano quasi esclusivamente dei reati commessi da gli “extra”?
Per caso, non ricordo quale fosse il motivo, ma ho cercato in internet le notizia sulle truffe e... l’unico “extra” citato era una vittima!
Ora si sa che la grande criminalità vive in ville di lusso e fa la bella vita, ma questa non ci fa paura, al contrario, quella di cui abbiamo terrore, la microcriminalità, si annida tra le persone al margine della società: chi è trattato da bestia si sente autorizzato ad agire da bestia. Se emarginiamo gli “strani”, o peggio, li sfruttiamo, non possiamo lamentarci se poi questi ci azzannano.
Se leggiamo quanto dice Manganelli sulla sicurezza, e mi sembra che egli sappia di cosa parla, ci accorgiamo che c’è qualcosa che non funziona.
Poi la gente sembra fare una gran confusione tra sospetto, incriminazione, pena. La giustizia ha grande difficoltà a funzionare, lo sanno tutti, ma le leggi sono un disastro. Un labirinto entro cui gli avvocati ci sguazzano ed la giustizia soccombe.
Ma poi quale giustizia vogliamo?
Questa non è una domanda oziosa, perché ne abbiamo parecchie: quella che difende la società, quella che si preoccupa di redimere, quella che fa vendetta. Troppo spesso mi sembra che la gente sia spinta su quest’ultima: la vendetta. Vorrebbe la forca innalzata nella piazza per appendere il malcapitato accusato al cappio, senza un vero processo, ma solo con l’elencazione delle accuse.
Perché tenere in carcere un accusato se non ci sono le condizioni? Condizioni che sono ben elencate: ripetere il crimine di cui è accusato, inquinare le prove, scappare. Ci si dimentica che chiunque è da ritenersi innocente fino alla fine del processo?
Non è forse che c’è qualcuno che ci vuole far credere che siamo in grande pericolo? Che manipola volutamente il peso delle notizie, mettendo in evidenza quelle che fanno comodo a delle tesi e nascondendone altre scomode?
Ecco che tornano i racconti di Primo Levi che ci espone cose che ha vissuto, cose che... allora non si sapevano, o meglio: non si potevano dire.
Sempre nel racconto “La storia di Avrom” trovo “il governo fascista li relegò insieme a Mestre, in un campo di quarantena. Di nome era una quarantena sanitaria, e del resto tutti avevano i pidocchi; di fatto era una quarantena politica, perché Mussolini non voleva che quei reduci raccontassero troppe cose.” e ovviamente non solo in questo racconto troviamo i segni di come allora le notizie fossero controllate e artefatte.
Ma oggi? Direi idem, anzi peggio perché la Televisione ci rimbambisce con trasmissioni, anche giornalistiche, che troppo spesso parlano solo di quello che vuole il potere, e la realtà viene mistificata. Un esempio è stato scritto nel numero precedente in “Incidenti stradali nel 2007 in Italia” http://www.spaziodi.it/magazine/n0502/vd.asp?id=1200
, in cui è evidente che la vera colpa degli incidenti non è l’alcol , come ci raccontano le TV, ma la pessima capacità di guida e le pessime strade che abbiamo.
Ecco il racconto.
Allora mi domando: ma siamo ancora quegli italiani bonaccioni e gentili, siamo solo impauriti o siamo diventati delle bestie?
Abbiamo per contro virtu di cui non siamo consapevoli, o di li almeno non sappiamo quanto siano rare in Europa e nel ondo: ripenso a queste virtu ogni volta che mi avviene di ripetere la storia di Avrom (lo chiamerò cosi), una storia che sono venuto a conoscere per caso. Per ora, essa vive appuno cosi, come una saga trasmessa di bocca in bocca, col rishio che venga distorta o adornata"e possa essere scambiata per una invenzione romanzesca. E una storia che mi piace perché contiene un'immagine del nostro paese visto da occhi ingenui e stranieri, in una luce ferma di salvazione, e visto inoltre nella sua ora piu bella. La riassumerò qui, scusandomi delle possibili imprecisioni.
Avrom aveva tredici anni nel 1939: era un ebreo polacco, figlio di un cappellaio molto povero di Leopoli. Quando in Polonia entrarono i tedeschi, Avrom comprese subito che era meglio non aspettarli chiuso in casa; cosi avevano deciso di fare i suoi genitori, ed erano subito stati catturati ed erano scomparsi. Avrom, rimasto solo, si mimetizzò sul fondo della piccola malavita locale, e visse di piccoli furti, di contrabbando minuto, di borsa nera e di mestieri vaghi e precari, dormendo nelle cantine delle case bombardate, finché non venne a sapere che a Leopoli c'era una caserma di italiani. Era probabilmente una delle basi dell' Armir: in città si sparse immediatamente la voce che i soldati italiani erano diversi dai tedeschi, che erano di buon cuore, andavano con le ragazze,e non stavano a guardare tanto per il sottile in fatto di discplina militare, di permessi e di divieti. Alla fine del 1942 Avrom abitava ormai stabilmente, e semiufficialmente, i quella caserma. Aveva imparato un po' d'italiano e cercava di rendersi utile facendo vari mestieri, l'interprete, il lustrascarpe, il fattorino. Era diventato la mascotte della caserms in cui tuttavia non era il solo: come lui vivevano una dozzina di altri ragazzi o bambini che erano rimasti abbandonati senza parenti, senza casa e senza mezzi. Erano ebrei e cristiani; per gli italiani sembrava che questo non facesse alcuna differenza, del che Avrom non finiva di stupirsi.
Venne nel gennaio 1943 la rotta dell’Armir, la caserma si riempì di sbandati e poi fu smobilitata. Tutti gli italiani ritornavano in Italia, e gli ufficiali lasciarono capire che se qualcuno si voleva portare dietro quei ragazzi figli di nessuno loro avrebbero chiuso un occhio. Avrom aveva
fatto amicizia con un alpino del Canavese: attraversarono il Tarvisio nella stessa tradotta, e il governo fascista li relegò insieme a Mestre, in un campo di quarantena. Di nome era una quarantena sanitaria; e del resto tutti avevano i pidocchi; di fatto era una quarantena politica, perché Mussolini non voleva che quei reduci raccontassero troppe cose. Ci restarono fino al 12 settembre, quando arrivarono i tedeschi, come se rincorressero proprio lui Avrom, stanandolo in tutti i nascondigli d’Europa. I tedeschi bloccarono il campo e caricarono
tutti sui vagoni merci per portarli in Germania.
Avrom, nel vagone, disse all’alpino che lui in Germania non ci sarebbe andato; perché i tedeschi li conosceva e sapeva di che cosa erano capaci: era meglio buttarsi giù dal treno. L’alpino rispose che anche lui aveva visto che cosa avevano fatto i tedeschi in Russia, ma che lui di buttarsi non aveva il coraggio. Saltasse giù Avrom, lui gli avrebbe fatto una lettera per i suoi in Canavese, con su scritto che quel ragazzo era un suo amico, che gli dessero il suo letto e lo trattassero preciso come se fosse lui. Avrom si buttò dal treno con la lettera in tasca. Era in Italia, ma non nell’Italia lucida e patinata delle cartoline illustrate e dei testi di geografia. Era solo, sulla massicciata della ferrovia, senza soldi, in mezzo alla notte e alle pattuglie tedesche, in un paese sconosciuto, da qualche parte fra Venezia e il Brennero. Sapeva soltanto che doveva raggiungere il Canavese. Tutti lo aiutarono e nessuno lo denunciò: trovò un treno per Milano,poi uno per Torino. A Porta Susa prese la Canavesana, scese a Cuorgné, e prese a piedi la strada per il paesino del suo amico. A questo puntò Avrom aveva diciassette anni.
I genitori dell’alpino lo accolsero bene, ma senza tante parole. Gli diedero dei vestiti, da mangiare e un letto, e poiché due braccia giovani servivano, lo misero a lavorare in campagna. In quei mesi l’Italia era piena di gente sbandata, fra cui c’erano anche inglesi, americani, australiani, russi, che erano scappati all’8 settembre dai campi per prigionieri di guerra, e perciò nessuno fece molto caso a quel ragazzino forestiero. Nessuno gli fece domande; ma il parroco, parlandogli insieme, si rese conto che era sveglio, e disse ai genitori dell’alpino che era un peccato non farlo studiare. Così lo misero alla scuola dei preti. A lui, che ne aveva viste tante, andare a scuola e studiare piaceva; gli dava una impressione di tranquillità e di normalità.
Però trovava buffo che gli facessero studiare il latino: che bisogno avevano i ragazzi italiani di imparare il latino, dal momento che l’italiano era quasi uguale? Ma studiò tutto con impegno, ebbe ottimi voti in tutte le materie, e in marzo il prete lo chiamò a servire messa. Questa faccenda, di un ragazzo ebreo che serve messa, gli sembrava anche più buffa; ma si guardò bene dal dire in giro che era ebreo, perché non si sa mai. A buon conto, aveva subito imparato a farsi il segno della croce e tutte le preghiere dei cristiani.
Ai primi d’aprile piombò sulla piazza del paese un camion pieno di tedeschi, e tutti scapparono. Ma poi si accorsero che quelli erano tedeschi strani: non urlavano ordini né minacce, non parlavano tedesco, parlavano una lingua mai sentita, e cercavano gentilmente di farsi capire.
Qualcuno ebbe l’idea di andare a cercare Avrom, che appunto era forestiero. Avrom arrivò sulla piazza, e lui e quei tedeschi si intesero benissimo, perché non erano tedeschi per niente: erano dei cecoslovacchi che i tedeschi avevano arruolato di forza nella Wehrmacht, e adesso avevano disertato portandosi via un camion militare e volevano andare coi partigiani italiani. Loro parlavano ceco e Avrom rispondeva in polacco, ma si capivano ugualmente.
Avrom ringraziò gli amici canavesani e andò coi cechi. Non aveva idee politiche ben definite, ma aveva visto che cosa i tedeschi avevano fatto al suo paese, e gli sembrava giusto combattere contro di loro.
I cechi furono aggregati ad una divisione di partigiani italiani che operava nella valle dell’Orco, e Avrom rimase con loro come interprete e staffetta. Uno dei partigiani italiani era ebreo e lo diceva a tutti; Avrom ne rimase stupito, ma continuò a non dire a nessuno che era ebreo anche
lui. Ci fu un rastrellamento, e il suo reparto dovette risalire la valle fino a Ceresole Reale, dove gli raccontarono che si chiamava Reale perché ci veniva il Re d’Italia a cacciare i camosci, e glieli fecero anche vedere col cannocchiale, i camosci, sui costoni del Gran Paradiso.
Avrom rimase abbagliato dalla bellezza delle montagne, di quel lago e dei boschi, e gli sembrava assurdo venirci per fare la guerra: infatti,a quel punto avevano armato anche lui. Ci fu combattimento coi fascisti che venivano su da Locana, poi i partigiani ripiegarono nelle valli di Lanzo attraverso il Colle della Crocetta. Per il ragazzo, che veniva dall’orrore del ghetto e dalla Polonia monotona, quella traversata per la montagna scabra e deserta, e le molte altre che seguirono, furono la rivelazione di un mondo splendido e nuovo, che racchiudeva in sé esperienze che lo ubriacavano e lo sconvolgevano: la bellezza del Creato, la libertà e la fiducia nei suoi compagni.
Si susseguirono combattimenti e marce. Nell’autunno del 1944 il suo gruppo discendeva la Val Susa, di borgata in borgata, fino a Sant’Ambrogio.
Ormai Avrom era un partigiano finito, coraggioso e robusto, disciplinato per profonda natura ma svelto col mitra e con la pistola, poliglotta ed astuto come una volpe. Venne a saperlo un agente del Servizio Segreto americano, e gli affidò una radiotrasmittente: stava in una valigia, lui doveva portarsela dietro spostandola continuamente perché non venisse individuata col radiogoniometro, e tenere i contatti con le armate che risalivano l’Italia dal Sud, e in specie coi polacchi di Anders. Di nascondiglio in nascondiglio, Avrom arrivò a Torino. Gli avevano dato l’indirizzo della parrocchia di San Massimo e la parola d’ordine. Il 25 aprile lo trovò annidato con la sua radio in una cella del campanile.
Dopo la Liberazione, gli Alleati lo convocarono a Roma per regolarizzare la sua posizione, che in effetti era piuttosto imbrogliata. Lo caricarono su di una jeep, ed attraverso le strade sconnesse di allora, attraverso città e villaggi gremiti di gente sbrindellata che applaudiva, giunse in Liguria, e per la prima volta nella sua breve vita vide il mare.
L’impresa del diciottenne Avrom, candido soldato di ventura, che come tanti remoti viaggiatori nordici aveva scoperto l’Italia con occhio vergine, e come tanti eroi del Risorgimento aveva combattuto per la libertà di tutti in un paese che non era il suo, finisce qui, davanti allo splendore del Mediterraneo in pace.
Adesso Avrom vive in un kibbutz in Israele. Lui poliglotta, non ha più una lingua veramente sua: ha quasi dimenticato il polacco, il ceco e l’italiano, e non ha ancora una padronanza piena dell’ebraico.
In questo linguaggio per lui nuovo ha messo giù le sue memorie,sotto la forma di appunti scarni e dimessi, velati dalla distanza nello spazio e nel tempo. È un uomo umile, e li ha scritti senza le ambizioni del letterato e dello storico, pensando ai suoi figli e nipoti, perché resti ricordo delle cose che lui ha viste e vissute. È da sperare che trovino chi restituisca loro il respiro ampio e pulito che potenzialmente contengono
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