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La vita in figure mi viene”. Così, ripetendo il verso di Lucio Piccolo, potrebbe dire Cordelia von den Steinen, che con la materia più antica, la terra, ha saputo dare un’immagine della vita contemporanea e, più ancora, della vita che non ha tempo.
La terra, con cui secondo tutte le grandi religioni è stato creato l’uomo (la stessa parola uomo, notava Heidegger, deriva da “humus”), serve all’artista per creare una famiglia di figure che raccontano le nostre vicende, i nostri desideri, le nostre fatiche, e insieme si caricano di meraviglia. Un realismo trasognato è appunto quello di Cordelia von den Steinen, che osserva la realtà dal punto di vista dello stupore.
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Cordelia Von Den Steinen, Gli stracci della Regina, 2007
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Anche per questo la sua ricerca ha pochi paralleli nel panorama attuale e, per trovarne le ascendenze, bisogna risalire più lontano, alle narrazioni duttili e stupefatte di Arturo Martini, o ai protagonisti più lirici del realismo magico degli anni venti, che cercavano nel presente le cadenze del mito.
Cordelia von den Steinen infatti mette in scena nelle sue opere un piccolo teatro, in cui comparse e protagonisti (l’uomo, la donna, ma anche le cose) si muovono in un’atmosfera fiabesca, e in cui l’eco dell’esistenza, con il suo stridio e le sue sofferenze, non è spento, ma appare addolcito da molti incantesimi. In questo senso
Gli stracci della Regina, che è l’immagine centrale di questa mostra, è quasi una dichiarazione di poetica. Anche l’arte, in fondo, è una regina che trasforma gli stracci della vita in momenti di poesia.
Ma vediamo, prima di tutto, il percorso della scultrice.
La vicenda di Cordelia è nota e si può riassumere in poche righe nei suoi dati principali: nascita nel 1941 a Basilea; studi nei primi anni sessanta all’Accademia di Brera con Marino Marini, perfezionati poi a Roma e a Parigi; sodalizio d’arte e di vita con Pietro Cascella, che conosce a Carrara nel 1966 (un sodalizio che non può non aver segnato, com’è naturale, la sua sensibilità creativa, ma che non si è mai tradotto in un influsso evidente, se non in qualche opera della fine degli anni sessanta o degli inizi del decennio successivo: i due artisti, anzi, hanno proceduto lungo strade differenti, secondo orientamenti felicemente autonomi, sia nella definizione del proprio mondo poetico, sia nell’espressione del linguaggio e, in particolare, nella scelta del materiale prediletto, che per Cordelia si appunta presto non sul marmo o sulla pietra, ma sulla terracotta).
Altrettanto lineare è la sua ricerca stilistica, che si articola sostanzialmente in tre stagioni.
La prima, di cui restano non molte prove (
Figura-anfora, 1963;
Ritratto di Giuliana, 1963), segna gli esordi dell’artista e si traduce in un realismo di ascendenza espressionista.
Subito dopo si assiste a un momento che potremmo chiamare architettonico, caratterizzato dalla ricerca di strutture essenziali. E’ un periodo venato inizialmente di suggestioni astratte, mutuate in parte da Marini (
Gruppi, 1964), che evolve però lentamente verso una figuralità sempre più precisa (
La casa della Sfinge, 1970;
La casa etrusca, 1971;
La visita, 1974). In queste opere, che prediligono una composizione per blocchi accostati, incentrata spesso sul motivo di una costruzione abitata o percorsa dall’uomo (case, ponti, treni), si amalgamano originalmente echi della scultura europea, da Lipchitz (che Cordelia ha modo di conoscere e frequentare a lungo) a Wotruba.
Infine, nei tardi anni settanta, Cordelia giunge a una figurazione compiutamente narrativa, che muove da un iniziale realismo per approdare al lirico “realismo magico” degli anni recenti, i più maturi e felici della sua vicenda artistica.
Appunto a quest’ultima stagione (preceduta solo dal grande incipit della Casa etrusca del 1971 e da qualche opera emblematica degli anni ottanta), è dedicata questa mostra, che testimonia, sia pure in sintesi, l’inesauribile ricchezza inventiva dell’artista.
Il nostro secolo, è vero, ha guardato con sospetto all’invenzione narrativa in arte, accusandola di letterarietà e preferendo il gioco, spesso monotono, delle variazioni sullo stesso tema, della ripetizione (poco) differente. Tuttavia è difficile non rimanere affascinati dalla vena poetica di Cordelia, che non ha un tema prediletto, ma tanti, e che ha come unica sigla quella di non avere sigle.
Il lavoro e lo studio, il pensare e l’agire, i sentimenti e i fallimenti, gli ideali e le idee, le illusioni e le ostinazioni degli uomini, che diventano ancora più eloquenti quando quegli uomini sono donne: tutto, tutto, passa tra le dita dell’artista e diventa figura, parabola, apologo affettuoso e paradossale.
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Cordelia Von Den Steinen, Ancora una pagina, 2004
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Una mostra di sogni, potremmo definirla, anche se non bisogna dimenticare che è prima di tutto una mostra di segni. Ma, per chiarire questo concetto, al di là del gioco di parole ripreso da Licini, è forse meglio ricorrere a qualche esempio.
Prendiamo Il grande registro (2002): un libro aperto, vergato pazientemente da nomi che compongono una privatissima geografia di affetti, le cui pagine sono lette, anzi abitate, da una donna. La lettura, la scrittura, la biblioteca sono un tema familiare all’artista, che lascia riaffiorare in quei soggetti i suoi ricordi d’infanzia, quando nella casa paterna di Basilea i volumi riempivano le stanze, la lettura era, più che un’abitudine, una ragione di vita e, come lei stessa ha detto una volta “non c’era mai nessuno che non avesse un libro davanti”. Suo padre, poi, un professore di storia medioevale, era irraggiungibile durante il giorno, chiuso nel suo studio e nei suoi studi, ma di sera raccontava a lei e alle sorelle sempre nuove storie e fiabe, mostrando libri, manoscritti, carte dove “lo spazio delle cose scritte conteneva interi mondi”.
Il grande registro, però, non è solo un volume. Innaturalmente grande, monumentale nelle sue piccole dimensioni, diventa, anche, il libro della natura (quello che, secondo Galileo e Cézanne, è scritto in caratteri matematici) e il libro della vita (quello su cui, biblicamente, sono scritti i nomi di tutti). L’invenzione poetica della figura sdraiata, quasi inghiottita dalle pagine, trasforma infatti il soggetto realistico in un tema affabilmente visionario, carico di risonanze fiabesche, dove la metafora metafisica del Libro si stempera nella quotidianità e la quotidianità, per contro, si accende di riverberi irreali, lontani dalle angustie e dalle ristrettezze del verismo. La lettura, allora, acquista una dimensione di mistero, perché non c’è niente di più sconosciuto, e forse di più inconoscibile, di quello che apparentemente conosciamo.
Il libro come mito, come enigma, come scatola magica e Wunderkammer, dunque. D’altra parte, lo abbiamo già detto, l’opera di Cordelia von den Steinen non è solo visione lirica. E’ anche, e prima di tutto, linguaggio. La sua straordinaria capacità di inventio, la sua narrazione soavemente filosofica, il sentimento di sorpresa fanciullesca che anima i suoi lavori, non devono far dimenticare che i suoi non sono solo (solo?) sogni, ma anche segni. Come diceva de Chirico la rivelazione, cioè la capacità di vedere nelle cose una inaspettata magia, è appena una metà dell’arte. L’altra è l’ispirazione, cioè la sapienza del linguaggio, senza la quale il lirismo potrebbe degenerare in stucchevolezza.
Per tornare al Grande registro, dunque, lo stravolgimento delle proporzioni, quel misterioso rovesciamento delle gerarchie tra uomo e cosa cui assistiamo, si uniscono alla capacità della figura di mescolarsi all’ambiente, di diventare per così dire natura morta.
Nell’opera di Cordelia il corpo umano (soggetto fondamentale, se non unico della tradizione plastica) non è mai il solo protagonista della composizione, ma si lega a un corredo di oggetti, di elementi, di complementi. Non è l’uomo a fabbricare le cose, ma le cose a definire l’uomo. Le borse, le sacche, le cornici, i libri, le maschere, i rotoli, gli indumenti, i mattoni, le scatole, le scale da cui ogni uomo e ogni donna sono accompagnati creano un archetipo diverso dal canone classico. Come nei rilievi e nei fregi medioevali, come negli interni della pittura fiamminga (e, a ben vedere un’ascendenza fiamminga non è estranea alla cultura dell’artista), anche qui l’uomo è ciò che fa, ed è raffigurato con gli strumenti o i frutti del suo agire.
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Cordelia Von Den Steinen, Il solito nascondiglio, 2006
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La figura, allora, riceve nell’opera di Cordelia una nuova (anche se antica) interpretazione stilistica. Ciò che conta non è il corpo, la sua bellezza, le sue proporzioni, ma il mondo di oggetti in cui vive. La scultura è una somma di addendi e non procede per via di levare, ma per via di porre, anzi di giustapporre. Non è solo figura, ma relazione di elementi.
L’intuizione lirica, insomma, si accompagna nelle terrecotte di Cordelia all’analisi, e alla risoluzione, di un problema formale. Ma le stesse considerazioni si possono fare per tutte le sue sculture.
Prendiamo, per esempio, La poltrona aspetta del 2002. La poltrona su cui si accumulano pazientemente un libro, una coperta, qualche foglio, è il luogo della meditazione, del riposo. Eppure aspetta, perché il “tempo della contemplazione”, nella vita concitata di oggi, è sempre dilazionato, posposto se non sacrificato a un “tempo dell’azione” che spesso è solo un agitarsi senza scopo.
Anche qui, come nel Grande registro, il tema realistico si trasforma in un tema magico. Muovendo dall’osservazione immediata delle cose, Cordelia von den Steinen le immerge in un’atmosfera attonita, dove le analisi razionali cedono a una catena di interrogativi senza risposta. La poltrona aspetta, del resto, non solo perché l’uomo o la donna non hanno potuto fermarsi a riposare, ma anche perché l’artista sospende il tempo e infonde nelle immagini una dimensione di silenzio, di attesa.
Anche qui, d’altra parte, la liricità della scultura, la sua capacità di fiaba e di magia, nascondono un problema formale. Intanto l’artista si confronta con un genere, la natura morta, che sembrava negato all’arte plastica (“Perché la scultura, che può fare una Venere, non può fare un pomo?”, si chiedeva Arturo Martini), anche se le avanguardie e, più ancora, le neoavanguardie degli anni cinquanta e sessanta hanno infranto quel divieto.
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Cordelia Von Den Steinen, Fino all'ultimo piano, 2005
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Su Cordelia, tra l’altro, che ha studiato all’Accademia di Brera, può aver esercitato qualche suggestione, oltre all’insegnamento di Marino Marini che la invitava a guardare gli Etruschi, anche quello di Alik Cavaliere, con le sue “nature morte” oniriche e surreali. Anche nella Poltrona, comunque, l’artista stila il suo catalogo di oggetti, la sua enciclopedia borgesiana, rovesciando le gerarchie di genere della scultura figurativa.
Ma non solo. I motivi del libro e dei promemoria introducono nell’opera i caratteri della scrittura, così come la coperta si scinde in un minuto intreccio ritmico, in una sequenza di unità grafiche che si ripetono all’infinito, trasformando la superficie compatta della terracotta in un’ordinata colonna di segmenti, di lievi punteggiature.
In tante opere di Cordelia von den Steinen (da La vestizione a Un grande compito, per citare solo alcune delle sculture qui documentate) si assiste a una analiticità in cui si fondono struttura e ornamento. Nessun artista, tra i maestri della terracotta, ha tanto utilizzato la duttilità della materia (che sembra semmai invitare a una modellazione “a pareti lisce”, come accade in un vaso) per trarne effetti così accentuati di ritmo, di animazione regolare della superficie.
Qui, del resto, tra la tenerezza domestica dei soggetti, affiora la dimensione barbarica, gotica, di Cordelia, che non a caso è nata nella Svizzera tedesca. Il fascino dei girali, delle spirali, delle guarnizioni, delle punzonature, che avvertirono i celti e i longobardi come le epoche altomedioevali, riemerge dolcemente nel suo gusto delle trecce e delle concatenazioni che, mimetizzate in mantelli, reti, lane lavorate ai ferri, fili grezzi di canapa, ma anche nelle tarsie di un puzzle (Enorme pazienza, 1999), esprimono la seduzione di una sequenza infinita. E, a questo punto, non si sa se è più suadente la magia del sogno o la magia del segno.
Infine, per fare un ultimo esempio, prendiamo un’opera come Dall’altra riva (2000). La prima cosa che ci raggiunge in questa scultura è il colloquio difficile tra l’individuo e il gruppo, tra la donna sola e il sipario delle figure schierate in fila. E’ la storia di una partenza dolorosa (o di un arrivo contrastato?), ma è anche la vicenda di una lontananza incolmabile, di una estraneità che fa pensare al grido di Dostoevskij: “Io sono solo e loro sono tutti”. La solitudine, del resto, non significa essere isolati, ma essere diversi: sentire che c’è qualcosa di noi che gli altri non possono capire né condividere.
Anche qui la silenziosa eloquenza dell’opera si mescola a un problema linguistico che si ripresenta in tanti altri lavori incentrati su un’identica composizione (Andiamo?, 2005). Riallacciandosi alla tradizione della scultura di “gruppo” che ha, nella modernità, i suoi padri nobili in Rodin, Medardo Rosso, Giacometti, Cordelia non si interessa qui alla forma singola, ma al rapporto di forme che crea uno spazio.
Spesso la sua scultura ingloba una porzione di spazio: pensiamo alle figure che si incrociano su una scalinata, compiono un lungo passo tra due opposte sponde, scorrono in una porta girevole, escono da una porta o una finestra, vivono e lavorano in una stanza, in uno studiolo, in una nicchia. Se nel Grande registro la figura si annidava entro i perimetri di un oggetto, qui diventa ambiente e luogo.
La scultura, allora, non è più materia, ma estensione. E’ insieme architettura e scatola prospettica, e non occupa lo spazio, ma lo accoglie. “Fa’ che io non sia un oggetto, ma un’estensione”, scriveva ancora Arturo Martini, componendo una sorta di preghiera della sua arte. La scultura, insomma, diventa una forma multipla nella continuità dello spazio (per parafrasare il noto titolo di Boccioni che parlava invece di Forme uniche della continuità nello spazio).
Così, in conclusione, ci appare l’opera di Cordelia von den Steinen. Uno sguardo stupefatto sul mondo, unito a una cognizione profonda delle leggi della scultura. Una condizione d’infanzia nel vedere le cose e una maturità sapiente nel rappresentarle. E se Eduardo ha dato una delle più belle definizioni dell’arte, dicendo: “Chi cerca la vita trova la forma, chi cerca la forma trova la morte”, Cordelia ha messo in pratica l’aforisma. Ha cercato la vita. E ha trovato l’arte.