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Picasso burlone Una bella introduzione alla lettura della mostra “Picasso, Suite 347” che si tiene a Cremona, Museo Civico Ala Ponzone dal 5 aprile al 28 giugno 2009 Di Brigitte Baer
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Nei sette mesi in cui lavorò “scrivendo” – perché di un testo si tratta – ovvero tra l’inizio di marzo e la fine di settembre del 1968, Picasso sembra essersi preso una lunga vacanza, più lunga di quelle scolastiche ma in ugual misura ricca di storie, fantasmi, avventure reali o sognate. Non sembra essersi preoccupato tanto dell’Arte (con la A maiuscola), termine che d’altronde odiava: “lavorava” raccontando tutto ciò che gli passava per la testa e – per una delle rare volte nella vita – senza curarsi delle proprie ansie o di quelle profonde inquietudini che spesso cercava, portandole a galla, di esorcizzare, ma piuttosto aprendosi alla percezione del mondo esterno, quel mondo che a un uomo di quasi 87 anni appariva folle, grottesco. Aveva visto ben altro! Il suo vecchio amico, il più intimo, Sabartés, era morto il 13 febbraio. Proprio come si posa una corona di fiori sulla tomba di un proprio caro, Picasso fece quel che pensava andasse fatto, quel che sarebbe piaciuto a Sabartés: una donazione al Museo Picasso di Barcellona. Ma a quell’età, in qualche modo, la morte di un coetaneo è una sorta di piccola vittoria: lui è morto, ma io sono vivo!
Era tranquillo, c’era il sole. Il suo incisore, Aldo Crommelynck, aveva allestito un piccolo atelier ai piedi della collina e faceva avanti e indietro tre o quattro volte al giorno con le lastre che bagnava nell’acido o granulava se si trattava di acquatinte, le incisioni di cui tirava un paio di prove e che riportava indietro se Picasso desiderava ritoccarle; lavorando in solitudine, giorno e notte, sempre disponibile, un assistente senza prezzo per Picasso. Immaginate: Aldo non aveva orari, viveva da solo perché la sua fidanzata era a Saint-Tropez, ed era giovane, determinato, instancabile, professionale, efficiente, perspicace... tutto questo, ma soprattutto era a totale disposizione dell’artista, giacché Picasso sul lavoro era una specie di tiranno. La casa era fresca, Jacqueline una perfetta padrona di casa, capace, per esempio, di rifornirsi di benzina durante uno sciopero che aveva reso introvabile un prodotto tanto indispensabile per una famiglia che viveva relativamente lontana dal paese. E in seguito, quando lo sciopero si estese a tutti i mezzi di trasporto – treni, aerei, autocarri e naturalmente automobili – Notre-Dame-de-Vie divenne silenziosa come un convento: né mercanti, né scrocconi, né giornalisti, né ammiratori più o meno molesti... e lavoro assicurato. Per Picasso non era forse una specie di paradiso? Almeno per qualche settimana. Non aveva più bisogno di fare il pagliaccio, di interpretare il proprio personaggio, di far ridere, di lanciare aforismi. Altrove i giovani si agitavano, si scontravano, manifestavano. A quanto pare, molto presto l’anziano comprese che non si trattava che di una “fronda”, una fronda che non rischiava di trasformarsi in ribellione, come era accaduto a quella che “tramava contro Mazzarino” almeno secondo quanto aveva previsto il coadiutore Paul de Gondi prima di diventare cardinale di Retz. Forse quell’agitazione, che non lo riguardava, gli ricordava la giovinezza. Si era completamente rimesso dall’operazione della fine del 1965 e non avvertiva più dolori allo stomaco, Jacqueline lo coccolava come un bambino e Picasso pensava esclusivamente al proprio lavoro. Jacqueline badava alla casa, Kahnweiler e gli impiegati della galleria Leiris si occupavano delle opere e del loro trasporto, delle mostre e del denaro di cui comunque – dato che si fidava solo del contante – Picasso teneva sempre una scorta perché lo sciopero delle banche non gli creasse problemi. In breve l’artista stava come un baco da seta nel suo bozzolo. E utilizzava di continuo il telefono per mantenere i contatti con il resto del mondo. Incideva in sala da pranzo: il tavolo serviva sia per i pasti che, sparecchiato, per lavorare; la stanza – dotata di televisore – era zeppa di libri, tele, incisioni, disegni e lastre di rame; un ambiente accogliente che Picasso considerava confortevole. Il grande cappello di paglia che appare sulla sua testa in diverse incisioni coronava una o l’altra pila di oggetti. Nel corso degli anni Trenta, la sua grande stagione da incisore, Picasso sembra essersi servito del lavoro su rame – un compito che lo assorbiva e gli dava modo di distendere lo spirito – per cercare di dipanare, capire o almeno lasciar emergere le questioni vitali che lo preoccupavano come uomo, come amante e come artista, giacché la modella era sempre anche l’amante di turno.
Suppongo che la maggior parte dei pittori si pongano gli stessi interrogativi, a meno che non si tratti di modelle ingaggiate a ore... E perfino in quel caso! Ma per Picasso si trattava di una vera e propria ossessione ed è senza dubbio questo il motivo per cui le sue incisioni sono enigmatiche, affascinanti, e suscitano sempre qualcosa in noi, anche se non sappiamo esattamente cosa. Prendiamo per esempio una serie relativamente limpida, la cosiddetta Suite Vollard: da essa promana un erotismo difficile da analizzare, ma più bizzarro e profondo di quanto possa sembrare a prima vista, e gli interrogativi che si pone l’autore sono molto più sotterranei e complessi di quanto appaiano. Solo il Minotauro è relativamente semplice: ha paura, paura di “mangiare”, di distruggere l’oggetto del desiderio e, nel farlo, di distruggere anche se stesso. Ma Picasso dissimulava, come iniziò a fare molto presto. Forse trasse l’idea dalle proprie esperienze teatrali; forse le Metamorfosi di Ovidio, per induzione, gli suggerirono che personaggi e cose sono intercambiabili, che tutto può “essere “trasformato e rimanere uguale e diverso allo stesso tempo. Tuttavia erano i pensieri o meglio, come lui le chiamava, le sue emozioni, ciò che allora dissimulava. Ma a partire da quei primi giorni del marzo 1968, anche se è evidentemente il suo occhio a scegliere (e certo nessuno vede in maniera identica a un altro), Picasso sembra in qualche modo tralasciare i suoi eterni e ricorrenti fantasmi e preoccupazioni.
Non che sia troppo minuzioso nel rappresentare gli abiti, ma certo è efficace: un mantello fatto con uno scarabocchio, sollevato da una spada, un cappello e una lunga chioma, calzamaglie definite dall’esilità delle gambe e l’illusione è perfetta! Fumetti, vignette umoristiche, geroglifici, perfino puzzle, tutto si mescola e si succede per dar modo allo spettatore di provare il medesimo piacere che egli sentiva, da bambino, nello sfogliare i libri illustrati. Perché, per dirla in due parole, la tecnica è magistrale, virtuosistica, così viva, rapida, che spesso mozza il fiato, soprattutto nelle incisioni di piccolo formato. Tutto viene utilizzato: zucchero su una lastra ben ingrassata (procedimento che produce in fase di morsura goccioline e personaggi da sogno), vernice diluita con acquaragia, polvere di smeriglio, carta vetrata, ecc. I personaggi, le scene, sono briosi, spesso grotteschi e sempre divertenti: quando non sorridiamo, ridiamo apertamente e ciascun dettaglio è comico per chi si prenda il tempo di guardare davvero. Anche il “problema” dell’impotenza, comprensibile in un uomo della sua età (ma forse un altro famoso catalano, Pablo Casals, non aveva avuto un figlio pressappoco alla stessa età?), che lo aveva preoccupato – Dio sa perché – dal momento dell’operazione allo stomaco, è spesso volto in burla: le donne rivelano sessi simili a “cerniere lampo”, ma gli uomini fumano la pipa senza guardarle, come a illustrare il detto: “una buona pipa è meglio di una bella donna”; (povero Picasso, aveva dovuto smettere di fumare dopo l’operazione). Il pene di tutti è a riposo, solo cavalli e asini appaiono eccitati quando portano una donna sulla schiena... In breve, Picasso scherza su se stesso e su chiunque altro: giovani e vecchi, uomini e donne; queste ultime sono generalmente brutte, dai volti ottusi, quasi idioti. Gli uomini, in un modo o nell’altro, appaiono ridicoli. Ma si tratta di burle garbate, non v’è acrimonia da parte dell’artista o meglio dell’autore. Fabbrica personaggi ipocriti e stolti e pur non ammirandoli è relativamente indulgente con loro. Indulgenza da vecchio, da genio temporaneamente ammansito? Non durerà a lungo, ma per quei sette mesi eccolo lì, allegro, spassoso. Ovviamente si vorrebbe capire da dove saltino fuori queste immagini, queste vignette. Non è così facile! Ma quando, con un po’ di fortuna, lo si comprende, allora divengono ancora più divertenti. Parlo di fortuna perché incaponirsi nella ricerca è del tutto inutile. Come capire ciò che ha divertito o eccitato la fantasia di un altro, anche qualora si condividano tutti i momenti della sua vita? Com’è noto la visione è quasi altrettanto selettiva della memoria. In poche parole ci sono immagini, ricorrenti, che rimangono un enigma per me, come per esempio quella del “garagista”, voglio dire quella dell’uomo, lo stesso Picasso appena camuffato o un suo doppio, che porta ruote d’auto, di carro, o semplicemente un copertone. Proprio non la capisco e Aldo Crommelynck mi ha spesso ripetuto che Picasso non voleva spiegare nulla: “Senti – diceva – ci sono molti enigmi nelle 347 incisioni e senza dubbio, data la loro stranezza, continueranno a rimanere tali a lungo, forse per sempre”. È tuttavia possibile risalire alle origini di alcuni scherzi che seguono da presso certi avvenimenti. Tali origini non spiegano tutto, ma lasciano filtrare un barlume di luce e a volte, di colpo, l’artista rivela la propria fonte con una certa chiarezza. Anche se di rado. Il motivo ripetitivo del pittore che dipinge sul corpo della modella è spiegato da una delle ultime lastre della serie, quella del 30 settembre. I (Baer 1841; 347:344). In un nero di lutto riconosciamo Porbus e il giovane Poussin, delusi, disperati dall’insuccesso di Frenhofer che dipingeva incessantemente “una donna viva”, “circondata d’aria”; che, in poche parole, voleva eguagliare Dio. Tutti i lettori del “Capolavoro sconosciuto” di Balzac hanno presente la catastrofe finale, e Picasso la doveva certamente avere scolpita nella mente (d’altra parte si tratta in pratica dell’unica immagine sinistra della serie). Sin dal principio tuttavia, Picasso annuncia che racconterà storie... per ritardare la propria morte. La puntasecca del 15 gennaio – che non fa parte della suite – ci mostra un’indemoniata Sherazade che racconta favole a un re Shariyar severo, malinconico, ma attento. E poi c’è l’incisione che apre la serie, lavorata in sette stati come tutte quelle importanti per l’artista (tranne La donna del tamburello che sarebbe stata rovinata).
La prima incisione della suite, realizzata tra il 16 e il 22 marzo (Baer 1496), è in primo luogo una sorta di firma. L’autore risulta perfettamente riconoscibile, non v’è traccia di caricatura. Ma la lastra rivela anche in parte di che umore è Picasso: l’artista mostrerà i suoi ricordi giovanili (il forzuto da fiera); la propria vita attuale (Jacqueline trionfante sul cavallo eccitato); il suo pubblico – ovvero il mondo – e il proprio mondo personale, quello in cui vive come in se stesso (autoritratto), come mago (il mago che assomiglia a Cocteau e indossa il cappello di Rembrandt) e anche come essere un po’ ambiguo, né uomo né donna, dotato di una sorta di sguardo radiografico come quello di Tiresia (il personaggio di spalle sdraiato in primo piano). All’epoca, per lo meno secondo Aldo Crommelynck, che era presente e non inventa nulla e in cui possiamo dunque confidare, Picasso leggeva poco ed esclusivamente in spagnolo, ad eccezione dei quotidiani che, presto, durante il mese di maggio, entrarono in sciopero. Solo France-Soir continuò a uscire durante quasi tutto lo sciopero generale. Picasso leggeva Nice-Matin che aderiva anch’esso allo sciopero, ma è possibile, anzi probabile, che Pierre Lazareff gli preparasse una rassegna stampa del suo famoso quotidiano e che, almeno occasionalmente, facesse in modo di fargliela arrivare. In seguito, tra il 22 maggio e il 27 giugno, anche la televisione entrò in sciopero: solo notiziari e niente più, a volte un film... che veniva improvvisamente interrotto. La mancanza di visitatori spingeva l’artista a distrarsi con quel poco che appariva sullo schermo e Télé Monte-Carlo non era in sciopero (secondo gli esperti sembra che nel 1968 potesse essere captata a Mougins, ma non ho ottenuto informazioni definitive). Su quel canale veniva trasmesso molto catch e film italiani che allora venivano chiamati peplum spaguetti, quei film in cui la regina di Saba ha un telefono rosa in bagno e Salomone indossa un orologio d’oro. Tali pellicole potrebbero spiegare le bighe romane del principio della serie, ma... quelle bighe potrebbero anche alludere al famoso programma sul circo, La piste aux étoiles, di Gilles Margaritis. A Picasso il circo era sempre piaciuto e anche il magnifico dono che aveva fatto a Barcellona (la “decostruzione”, si direbbe oggi, delle Meninas, accompagnata dal ritratto “blu” di Sabartés che vi appare un po’ meno magro del solito e con una strana chioma semilunga) lo riportava alla giovinezza, al circo Medrano, ecc. In quanto al catch, gli “intellettuali” ne andavano pazzi e le trasmissioni di Catch à quatre, commentate con arguzia da un certo Darget, erano considerate imperdibili. Sembra che per Picasso la televisione sostituisse il “Diablo cojuelo” [il “diavolo zoppo” protagonista dell’omonimo racconto secentesco di Luis Vélez de Guevara, N.d.T.] che, una volta liberato dalla bottiglia, mostra allo studente don Cleofás tutto quello che fanno gli abitanti di Madrid, come se avesse rimosso tetti, soffitti e pareti. Non v’era bisogno di volare sul dorso del “Diablo cojuelo”: ci pensava la televisione. A Picasso doveva piacere quel racconto perché ne possedeva diverse edizioni, sia dell’originale di Vélez de Guevara che quella che Lesage aveva tradotto e “interpretato” a modo suo. I suoi libri erano in realtà conservati nelle casse provenienti da rue Grands-Augustins e ammucchiate in quelli che chiamavano “gli annessi”, e l’artista, presumibilmente, non li aveva ancora riletti, ma il rimando è chiaro e oltretutto il 13 marzo la TV passò un film con quel titolo di Sacha Guitry [“Le diable boiteux”, 1948. N.d.T.]. Il tema (Talleyrand) era del tutto estraneo alla storia spagnola, ma il titolo risvegliò certamente la memoria di Picasso: avrebbe messo il proprio pubblico dinnanzi a se stesso! Quel pubblico – soprattutto dopo il successo della grande mostra di Parigi Hommage à Picasso (1966-1967) – era il mondo intero e il pittore lo sapeva, non aveva più nulla da dimostrare, salvo che non era poi così vecchio e che sapeva ridere. Il proprio mondo, e il mondo, li avrebbe mostrati facendosene gioco. È difficile immaginare il piccolo mondo che lo circondava: gli abitanti della casa, il giardiniere, il paese; ma le immagini di donne sulla spiaggia – anche quando alludono al “Bagno turco” (era un pittore dopotutto, o no?) – rimandano certo alle gite in auto che a volte faceva insieme a Jacqueline. Ma c’era anche il resto del mondo, ciò che vedeva sullo schermo della televisione e le notizie, telefoniche, sull’esposizione delle sue Meninas a Barcellona (in maggio). È impossibile elencare tutti gli spunti divertenti. Nel mio catalogo ragionato ho appuntato alcune fonti dopo aver esaminato le critiche relative ai programmi effettivamente emessi... Microfilm presso la Biblioteca Nazionale, otto edizioni del quotidiano France-Soir al giorno, un inferno! Nonostante tutto, qualcosa ho trovato e la scoperta, per quanto piccola possa essere, è sempre un piacere, anche se il lavoro è nocivo per gli occhi, causa il mal di testa e dà la nausea come un viaggio in auto. Ciò che tuttavia ha catturato la mia attenzione – forse perché Picasso abitava davanti all’ufficio delle poste – è che i suoi scherzi seguono immediatamente l’avvenimento da cui traggono spunto, spesso nascono il giorno stesso o quello successivo. Citiamo solo alcuni esempi: la lastra datata 15.II e 19 aprile (Baer 1536; 347:40) è sconcertante quando si conoscano bene i feticci di Picasso, le due donne in primo piano non fanno parte del suo abituale bestiario, si tratta di ritratti... In effetti proprio la notte del 15 la televisione aveva trasmesso il celebre film di Marcel Carné, “Les Enfants du paradis” [“Amanti perduti”, 1945]. Tutta la generazione del dopoguerra conosceva il film a memoria e inoltre il cast era composto quasi interamente da conoscenti dell’artista. Com’è noto gli splendidi dialoghi erano stati scritti dal suo grande amico Prévert. Le due figure femminili disegnate la notte del 15 aprile, lo furono, per così dire, nel corso della trasmissione. La donna con la collana è Arletty nel ruolo di Garance, e quella con la crocchia María Casares nella parte di Nathalie. Picasso le ritoccò senza però riuscire, soprattutto nel caso di Garance, a ottenere una vera somiglianza e raffigurò María Casares anche sulla terza lastra lavorata quel giorno, facendone una caricatura. La “femme fatale” e la “casalinga”, l’idea doveva piacergli! Il 19 (Baer 1538; 347:42) evocò invece l’amico Jean-Louis Barrault – un altro degli attori del film di Carné – con il costume da pierrot e l’aria da ballerino. Il 19 aprile si svolse una grande manifestazione degli studenti nel quartiere latino: il 21 (Baer 1541; 347:45) Picasso crea una caricatura del generale De Gaulle con una corazza ispirata liberamente a quella del Filippo IV di Velázquez, con i pantaloni abbassati e il sesso inanimato; dinnanzi a lui una donna moderna, la “Marianna” cui si rivolge, morbida, passiva, grassa e in pantofole; essa è cancellata, ma visibile nel secondo stato, e appare quella nuova generazione che il pittore non comprende: una ragazza magrissima e scalza che come unico abbigliamento indossa un cappello di paglia sulla lunghissima chioma. De Gaulle non capisce niente, sembra affermare Picasso, è vecchio, non ha più alcun pubblico; mentre lui, l’artista, conserva il proprio anche se disapprova questa nuova generazione che non sa più che cosa è il sesso. Per quanto riguarda i “fatti”, come aveva detto durante la guerra, Picasso non è né un giornalista né un fotografo, e quindi li trasforma in duelli, inseguimenti, rapimenti nello stile dei “Tre moschettieri” e, almeno una volta (Baer 1602, 347:106), nel pieno dello sciopero generale, allude al Goya del “2 maggio 1808”. Senza dubbio i costumi del Seicento erano assai più belli e vivaci di giacca e cravatta o di jeans e maglione! Quegli abiti invaderanno anche le piccole lastre dedicate alla “Celestina”. Personaggi abbigliati alla moda della fine del Quattrocento sarebbero sembrati in vestaglia! Solo la Celestina resta uguale a se stessa, simile a quella delle scene di bordello incise nel 1955, a quella del frontespizio dell’edizione sivigliana (1501) riprodotto sulla copertina di un tascabile, una traduzione francese dell’opera, che Picasso possedeva. Di fatto la Celestina appare praticamente ovunque, nelle grandi lastre e in quelle piccole; non era forse la mezzana della sua gioventù, la vecchia che organizzava incontri, matrimoni e il resto? La regina delle comari. Ma Picasso si spinge in scherzi più arditi: il 10 giugno è il giorno del funerale di Robert Kennedy, assassinato a Los Angeles. La sepoltura di un personaggio politico, famoso e potente, richiama subito alla mente dell’artista quella del conte di Orgaz, riprodotta nel celebre dipinto di Toledo.
In cima alla piramide umana, una bella donna con un turbante e un fauno; evidenti allusioni alle avventure sessuali dei Kennedy e forse alla bella Jacqueline Kennedy (vedi Baer 1649, 347:153). Ma l’idea dell’uomo che alza gli occhi al cielo, come per guardare sotto la sottana della Vergine o quella di un angelo (l’eterna questione del sesso degli angeli!) non voleva uscirgli dalla testa: poteva certamente strappare un’altra beffa da quella famosa tela. Dopo due incisioni di prova, una per definire l’uomo con le lacrime agli occhi (è un funerale!), l’altra per cercare – senza troppo successo – di fare una caricatura di El Greco, il 30 giugno, giorno del secondo turno elettorale, si getta in un’interpretazione funambolica, degna di un pittore alle prime armi, dell’intera Sepoltura. Una lastra assai divertente che lascia capire quanto se la spassò l’autore! Ci si potrebbe chiedere se Picasso prevedesse o desiderare “la sepoltura” – politica ovviamente – di De Gaulle. Nonostante la vittoria elettorale dei gollisti quel funerale fu rimandato solo di poco. L’uomo in lacrime e con gli occhi sbarrati torna ancora, ripetuto all’infinito, mentre in un angolo, come nel dipinto, appare il ritratto dell’artista. Appare la Vergine, trasformata in una giovane e ridente donna nuda che si versa un bicchiere di vino. Appare Jorge Manuel che non addita più il cadavere, ma piuttosto lo presenta sotto forma di un grande pollo arrosto circondato da patate (i santi e i sacerdoti); mentre il ritratto di El Greco continua a creare problemi a Picasso, troppo intimorito senza dubbio, nonostante l’età, dalla grandezza del maestro (Baer 1692, 347:196). Lo schermo del televisore (a partire dal 28 agosto) costituì l’innesco della celebre serie dedicata a “Raffaello e la Fornarina” che fu censurata nella mostra della galleria Leiris e, suppongo, anche a Chicago! Si tratta in realtà di incisioni assai più comiche che erotiche, ma Picasso, amante dei pettegolezzi, doveva conoscere la storia, vera o falsa, della morte di Raffaello causata da sfinimento sessuale. Un altro autore parlerà certamente di questa serie nel catalogo. Basti dire che il 23 agosto l’arrivo di papa Paolo VI a Bogotá fu trasmesso in diretta in tutto il mondo – o almeno in quelle parti del pianeta in cui la televisione arrivava – in “mondovisione”, un termine orribile che riflette tutto il disprezzo della “gente delle immagini” per le parole! A ogni modo Paolo VI fu il primo papa giramondo e la televisione, le riviste, i giornali traboccavano di notizie sulle risorse, i costumi e le bellezze della Colombia. Com’è noto la marijuana colombiana è di gran lunga la più famosa e la migliore; essa rifornisce oltre il 75% del mercato americano. Per Picasso l’unica droga che si fuma è l’oppio della sua giovinezza. Ed eccolo pronto a lanciarsi in un fantastico tourbillon di immagini picaresche. Il 28 il papa con lo zucchetto bordato di ermellino che appare nel ritratto di Giulio II di Raffaello – zucchetto che Picasso adorna con un pompon – e uno strano completo “da viaggio” che l’artista riconduceva forse a Cortés; il papa, dicevamo, fuma l’oppio e sogna un’eterogenea e piuttosto frivola Santissima Trinità (si noti l’importanza del numero tre). Ormai l’immaginazione dell’artista è scatenata. Il “copricapo” di Giulio II lo fa pensare a Raffaello (che non gli piaceva: “troppo dipinto”, diceva) e da Ingres prende in prestito elementi tratti da “Raffaello e la Fornarina2 e da “Paolo e Francesca sorpresi da Gianciotto”. Si tratta semplicemente del papa, fatto di marijuana, che si trasforma in guardone e... non dovete far altro che guardare! (Baer 1792-1817; 347:295-320). Non è tale e quale a un fumetto? Un altro evento che assunse le proporzioni di una bomba, di un miracolo, in una Notre-Dame-de-Vie deserta a causa dello sciopero generale dei trasporti, dei distributori di benzina, ecc.: “il” visitatore. Era un architetto americano incaricato di erigere la grande effigie rappresentante Jacqueline presso il Chicago Civic Center. Si presentò un bel giorno di inizio giugno in auto e nessuno riuscì mai a capire dove fosse riuscito a trovare benzina. Sia a casa di Picasso che nell’atelier di Aldo Crommelynck poté sbirciare molte stampe. Ammirò e si divertì. Di ritorno a Chicago parlò di quelle incisioni all’Art Institute e per questo la serie fu esposta lì quasi contemporaneamente a Parigi, alla fine dell’autunno. Si chiamava Hartmann. Sembra che una conseguenza, secondaria, dell’arrivo di quell’ospite inatteso sia stata la meravigliosa acquatinta dell’1 ottobre (Baer 1842, 347:345) e la lastra successiva, così comica. Ma occupiamoci dell’effetto principale del suo arrivo: nel 1966-1967 l’Art Institute aveva organizzato una grande mostra dedicata a Manet. Come di consueto, nel corso dei negoziati per l’esposizione della Suite 347, l’Art Institute inviò alcuni doni a Picasso, cataloghi in particolare (forse per dimostrargli come si lavorava bene a Chicago) e tra di essi quello dedicato a Manet.
L’Art Institute conserva il disegno, ben rifinito, per il ritratto che Fantin-Latour fece di Manet. Picasso invecchia il collega, lo ingrassa, gli fa indossare qualcosa che non è né una giacca né un abito da sera, ma ne fotografa l’atteggiamento, il portamento, il cappello, la somiglianza. In quanto a Marcellin Desboutin, è esattamente identico, anche se di profilo e non di fronte, a quello del ritratto dipinto da Manet conservato presso il Museo di São Paulo. Quel ritratto non era stato esposto nella mostra dell’Art Institute, o almeno non figurava nel catalogo, ma Picasso possedeva di certo una grande quantità di libri su Manet compresa la monografia, apparsa alla fine del 1967, pubblicata da Rizzoli nella collana dei “Classici dell’Arte”. Com’è noto il titolo del dipinto è L’artista e Picasso, per il quale non esisteva insulto più feroce da indirizzare a certi colleghi che la qualifica di “artista pittore”, si affretta, il 4 ottobre, a disegnare un pittore grottesco che guarda al di sopra della spalla la sua modella – una donna brutta e dalla faccia inviperita – mentre dipinge con tavolozza e pennello (l’intero arsenale dell’“artista pittore”) scarabocchi che rimandano all’“espressionismo astratto” o almeno a ciò che Picasso pensava fosse quello stile. Tanto bella è la prima lastra quanto sbrigativa, anche se di irresistibile comicità, questa. Ricordiamo che la mostra, precipitosamente organizzata per il compleanno di Picasso, il 25 ottobre, venne rinviata. Per concludere, giacché la nostra mostra si svolge in Spagna, ho conservato questo aneddoto come dessert. Si aprì la mostra dedicata alla donazione di Picasso al Museo di Barcellona: le sue variazioni su Las Meninas. Era maggio, in Francia non era ancora iniziato lo sciopero generale, ma Picasso non viaggiava più e aveva deciso di non far ritorno in patria fino alla morte di Franco (decisione che comportò per il pittore l’impossibilità di rivederla). Riceveva tuttavia notizie, soprattutto per telefono giacché la posta non funzionava bene; in ogni caso dovette ricevere la tradizionale cartolina da Barcellona con le Ramblas da una parte e la fontana di Canaletas dall’altra (il tratto sull’incisione è troppo preciso perché si possa pensare che il disegno sia stato eseguito a memoria). In effetti conservava amici intimi a Barcellona, come Gustavo Gili, il suo editore, e la moglie di questi. Senza dubbio Catherine – la figlia di Jacqueline a lungo residente in Spagna – andò all’inaugurazione della mostra. E una grande acquaforte del 13 maggio mostra Picasso, nelle vesti di turista, mentre scatta una foto della fontana di Canaletas circondata da tre Grazie boccolute, corpulente e ridicole, delle quali non conosco l’origine; una porta un vaso a forma di gallo (un rimando alla patria d’adozione di Picasso). Dietro il “turista” compare un carro stipato dei personaggi del “guignol” picassiano. A sinistra la Spagna tradizionale: un monaco, un picaro e una sorta di caricatura di Velázquez (?); il picaro ride ma gli altri paiono disapprovare. A Barcellona si dice che chi beve alla fontana di Canaletas tornerà di certo in città. Picasso non vi aveva più messo piede dal 1934, ma i suoi quadri – dedicati alle Meninas oltretutto – vi regnavano. E lì stava anche quel “guignol” che, nell’incisione successiva, si trasforma in un carro di commedianti ambulanti con un giovane Picasso in costume da pierrot e cappello da arlecchino. Picasso vuol forse dire che le sue Meninas sono “teatro”? E che perfino quelle di Velázquez (“il pittore di corte”, come lo chiamava) sono “teatro”? D’altra parte in compagnia dei comici ambulanti c’è anche la piccola Infanta che orina in piedi, più come un ragazzo che come la celebre “pisciona” di Rembrandt [“Donna in atto di orinare e defecare”, un’acquaforte del 1631, N.d.T.]. Sacrilegio forse, ma Picasso si divertiva alla grande, non v’è dubbio. Il combattimento di galli allude forse alle vicende francesi e l’uomo seduto potrebbe ben essere una caricatura, non molto somigliante, di Pompidou (vedi Baer 1577 e 1578; 347:381 e 382). Tornato dall’Iran l’11, Pompidou parlò in televisione la notte del 13 maggio. Solo in seguito, il 21 luglio (Baer 1709, 347:213), l’artista allude al ritratto ovale di Sabartés, eseguito a Parigi nel 1901 e incluso nella donazione al museo catalano. Nell’incisione Sabartés è appoggiato allo schienale della sedia di un pittore “velazquiano” che sta dipingendo una ballerina nuda. È di profilo ma è proprio lo stesso Sabartés del ritratto: gli stessi capelli, lo stesso viso, gli stessi baffi, lo stesso collo e, ovviamente, gli stessi occhiali. Come per dimostrare che non vi è alcuna ambiguità circa l’identità del pittore, la lastra del 23 luglio – quella successiva – mostra Velázquez in abito di corte che dipinge il ritratto della coppia reale, nuda. Evidentemente Picasso pensa allo specchio delle Meninas. Ho solo voluto indicare le regole del gioco. Naturalmente ciascuno può continuare il gioco da sé: è molto più divertente scoprire le cose da soli, e resta ancora un’enorme quantità di burle che mostra il lato giocoso del pittore. Cito tuttavia ancora una lastra, comica in ogni caso, perfino qualora non si sappia a cosa alluda, quella del 28 settembre (Baer 1839, 347:342). Alcuni scrittori dall’aspetto grottesco sistemano una corona d’alloro sulla testa dai capelli ricci o la parrucca di un busto scolpito, mentre la giovane donna appoggiata all’effigie si tocca la tempia con il dito indice teso, un gesto che, ovunque nel mondo, significa: questi sono pazzi; ebbene, il 19, l’Asociación Española de Críticos de Arte aveva assegnato il Premio della Critica a Pablo Picasso! No, questa serie non è invecchiata, è sempre meravigliosa e soprattutto divertente. Eppure nello stesso momento, sull’altra sponda dell’Atlantico, Jasper Johns lavorava alle Ale Cans (1963) e ai Numbers, Andy Warhol creava le sue “Marilyn Monroe”, Edward Ruscha la sua “Standard Station”, ecc. Argomenti: #arte , #arte contemporanea , #cremona , #mostra , #picasso Leggi tutti gli articoli di Brigitte Baer (n° articoli 1) |
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