Roma, 9 giugno 2009
Signor Vice Presidente,
Signori Consiglieri,
a tutti voi il mio più cordiale saluto.
Ho, negli ultimi tempi, ritenuto di dover più volte ritornare sul tema degli equilibri costituzionali, come garanzia per il rispetto e l’affermazione dei principi fondamentali, per l’esercizio dei diritti e dei doveri, sanciti nella Carta, e come presidio di stabilità e di coesione per lo sviluppo della vita democratica. Ho ritenuto di dover dunque richiamare il senso dei limiti e degli equilibri entro i quali – nella moderna democrazia costituzionale – ogni istituzione rappresentativa, ogni potere e organo dello Stato può e deve svolgere il proprio ruolo.
Si tratta di un discorso rivolto a tutti i soggetti istituzionali operanti sulla base della Carta vigente ; di un invito alla riflessione indirizzato in primo luogo al Parlamento, ma anche alla società civile, all’opinione pubblica, alle forze politiche.
Gli equilibri tra le istituzioni possono, com’è evidente, modularsi variamente nell’ambito della forma di Stato e della forma di governo propria di ciascun paese : ma essi rappresentano un problema cruciale cui nessun sistema democratico può sfuggire.
E dunque anche gli equilibri disegnati nella Costituzione del 1948 possono essere rimodulati attraverso quella revisione di norme della Seconda Parte della Costituzione, cui legittimamente e comprensibilmente si intende procedere e che appare finalmente realizzabile quanto più ampia sia la condivisione che si consegua in Parlamento.
Quel che invece può produrre gravi danni e conseguenze sarebbe il tentativo di operare strappi negli attuali equilibri costituzionali senza definirne altri convincenti e accettabili, coerenti con i principi della Carta del 1948 e con fondamentali conquiste di libertà e di pluralismo, tra le quali, di certo, l’indipendenza della magistratura.
A tutelare tale indipendenza chi vi parla è chiamato nella sua duplice veste di “custode” dei valori e dei precetti costituzionali in quanto Presidente della Repubblica, e di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma non posso, oggi qui, tacere alcuni dei motivi di preoccupazione che avverto nel farmi carico, come non ho mai mancato di fare, di questa responsabilità.
Tra i maggiori motivi di preoccupazione vi è quello della crisi di fiducia insorta nel paese per effetto di un funzionamento gravemente insoddisfacente, nel suo complesso, dell’amministrazione della giustizia e per effetto anche dell’incrinarsi dell’immagine e del prestigio della magistratura. E non si può negare che tra i due fattori vi siano relazioni non superficiali. L’efficacia del controllo di legalità e della funzione giurisdizionale, in ultima istanza la garanzia di giustizia per i cittadini, risentono pesantemente di inadeguatezze di norme e di strutture, cui da troppo tempo governi e Parlamento, nel succedersi delle legislature, non hanno posto rimedio in modo ordinato e coerente, dedicandovi anche le necessarie risorse.
Tuttavia, la magistratura non può non interrogarsi su sue corresponsabilità dinanzi al prodursi o all’aggravarsi delle insufficienze del sistema giustizia e anche su sue più specifiche responsabilità nel radicarsi di tensioni e opacità sul piano dei complessivi equilibri istituzionali. Tanto meno può non interrogarsi su quanto abbiano potuto e possano nuocere alla sua credibilità tensioni ricorrenti all’interno della stessa istituzione magistratura.
Mi sono così avvicinato al tema concreto su cui desidero oggi richiamare la vostra attenzione. Il presupposto da cui parto è quello del doversi operare decisamente – anche nello svolgimento dell’attività del CSM – al fine di recuperare pienamente quel bene prezioso che è il prestigio della magistratura in termini di rinnovata fiducia e consapevole sostegno da parte dei cittadini. Non è forse questo il più valido presidio dell’indipendenza della magistratura? Non è forse questa una condizione essenziale per il graduale superamento della crisi della giustizia, essenziale non meno delle opportune riforme normative e organizzative?
Nello stesso tempo, il presupposto da cui parto è che l’avvio di un’aperta, seria, non timorosa, riflessione critica da parte della magistratura su sé stessa, e la sua conseguente apertura alle necessarie autocorrezioni, siano il modo migliore per prevenire qualsiasi tentazione di sostanziale lesione dell’indipendenza della magistratura.
Confido molto che sappiate a ciò predisporvi innanzitutto voi, in quanto rappresentanti dell’organo di autogoverno voluto dalla Costituzione.
E tra i punti più delicati, nell’interesse della riaffermazione dello stesso ruolo del Consiglio Superiore, c’è quello del rigore e della misura, dell’obbiettività e imparzialità, con cui il Consiglio deve esercitare le sue funzioni : senza farsi, tra l’altro, condizionare nelle sue scelte da logiche di appartenenza correntizia. Il rispetto degli equilibri costituzionali e dei limiti che esso comporta per ciascuna istituzione vale per tutti, vale per tutte le istituzioni.
E dunque anche nell’affrontare il tema complesso e spinoso dell’organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero, occorre avere ben presente il quadro complessivo delle norme e degli equilibri posti nel Titolo IV della Costituzione ; a cominciare da quell’ancoraggio alle “norme dell’ordinamento giudiziario”, “stabilite con legge”, sancito negli articoli 105 e 108, e dal rapporto con l’attribuzione, nell’articolo 110, al Ministro della giustizia dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
Occorre nello stesso tempo avere di mira il superamento di elementi di disordine e di tensione - che si sono purtroppo clamorosamente manifestati in tempi recenti nella vita di talune Procure. E ciò non è possibile senza un pacato riconoscimento delle funzioni ordinatrici e coordinatrici che spettano al capo dell’Ufficio.
A questo proposito, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno recentemente affermato che “la riorganizzazione degli uffici del pubblico ministero ha costituito uno dei più significativi obiettivi della riforma dell’ordinamento giudiziario e che il vigente quadro normativo si caratterizza per l’accentuazione del ruolo di “capo” del procuratore della Repubblica e per la corrispondente parziale compressione dell’autonomia dei singoli magistrati dell’ufficio. Al fine di meglio assicurare le esigenze di efficienza, coordinamento, uniformità e ragionevole durata dell’azione investigativa” – proseguono sempre le Sezioni Unite – “al procuratore della Repubblica è affidato, tra l’altro, il potere-dovere di determinare i criteri generali di organizzazione della struttura e di assegnazione dei procedimenti, di stabilire i criteri cui il magistrato assegnatario deve attenersi nell’esercizio delle indagini conseguenti all’assegnazione del procedimento” di revocare l’assegnazione se vi è contrasto sulle modalità di esercizio delle attività di indagine o se non sono osservati i principi e i criteri di tale esercizio.
Lo stesso Consiglio Superiore, nella sua risoluzione del 12 luglio 2007, ha condivisibilmente rilevato la opportunità che, nello svolgimento delle loro prerogative organizzative, i procuratori coinvolgano preventivamente tutti i magistrati dell’ufficio. Una gestione trasparente ed efficiente è in effetti assicurata dalla sinergia tra il “capo” e i suoi sostituti, purché non la si intenda in chiave di condizionamento delle potestà di organizzazione che spettano esclusivamente al primo.
E’ chiaro che un corretto ed efficace sistema di rapporti all’interno delle Procure implica un livello elevato di professionalità e di cultura organizzativa, e una corrispondente assunzione di responsabilità, da parte dei capi degli uffici, su cui il CSM è chiamato a intervenire esercitando una funzione di stimolo e di vigilanza.
La posizione del magistrato del pubblico ministero è assimilata a quella del giudice nell’affermazione costituzionale della indipendenza della magistratura da ogni altro potere. A differenza del giudice, però, le garanzie di indipendenza “interna” del pubblico ministero riguardano l’ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato e sono rimesse al legislatore ordinario attraverso le norme sull’ordinamento giudiziario, come anche la Corte costituzionale ha chiarito, ferma restando beninteso la piena autonomia del singolo nella gestione processuale.
Invero, l’art. 7-ter comma 3, introdotto nell’ordinamento nel 1998 con il decreto legislativo n. 51, aveva consentito al Consiglio Superiore della Magistratura di determinare i criteri generali per la organizzazione degli uffici del pubblico ministero, riducendo sensibilmente i poteri dei dirigenti delle procure. Ma la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 quale si è tradotta nel decreto legislativo del 20 febbraio – riforma che sul punto non è stata sottoposta a censure di illegittimità – ha espressamente abrogato l’art. 7-ter e, in tal modo, ha chiaramente differenziato lo status della indipendenza “interna” del sostituto rispetto a quello del giudice. I poteri di organizzazione dell’ufficio sono divenuti prerogativa del capo della Procura. Quindi, al Consiglio Superiore della Magistratura non è più dato approvare progetti organizzativi del tipo di quelli che operano per gli uffici giudicanti, prevedendo financo sanzioni incidenti professionalmente e disciplinarmente sui capi degli uffici. Ne potrebbe tra l’altro scaturire il rischio di defatiganti contenziosi amministrativi e, addirittura, di conflitti tra poteri.
Non sono ovviamente in discussione né il potere-dovere del Consiglio di operare come centro di raccolta, diffusione e promozione di prassi virtuose adottate dai capi degli uffici – e ne sono state messe in atto di significative, pur tra difficoltà – né quello di interloquire in materia con i capi delle Procure e con il Ministro anche con riferimento alle risorse degli uffici. Ad esempio, sulla necessità di porre urgente rimedio alle difficoltà in cui questi versano, il Ministro è stato sensibilizzato con una importante e recente delibera del Consiglio che merita la più attenta riflessione. Egualmente, non sono in discussione le funzioni di controllo e garanzia istituzionale attribuite al Consiglio per assicurare che la indispensabile e naturale flessibilità da riconoscere ai progetti organizzativi non incida sui principi costituzionali posti a presidio dell’indipendente esercizio dell’attività giudiziaria.
E’ necessario comunque evitare che il Consiglio assuma ruoli impropri dilatando, in via paranormativa, i propri spazi di intervento. Occorre altresì tenere conto del fatto che, con l’articolo 6 del decreto legislativo n. 106 del 2006, sono stati accresciuti i poteri di sorveglianza dei procuratori generali presso le Corti di Appello e del procuratore generale della Cassazione. I primi debbono innanzitutto verificare il corretto esercizio dell’azione penale, il rispetto delle norme sul giusto processo, il puntuale espletamento – da parte dei procuratori – dei poteri di direzione, controllo e organizzazione; e poi, a seguito dell’acquisizione di dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto, riferirne al procuratore generale della Cassazione. Questi viene così investito della vigilanza sul complessivo andamento delle attività svolte da tutti gli uffici requirenti.
Con il nuovo ruolo assegnato ai procuratori generali, il sistema ha apprestato un efficace rimedio interno all’ordinamento, che assume fondamentale importanza per evitare l’insorgere di contrasti e assicurarne il sollecito superamento. La esplicazione dei poteri di vigilanza non comporta controlli accentrati e autoritari . Come ha ricordato il procuratore generale della Cassazione alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario 2009, alle anomalie nella conduzione delle indagini, si può oggi porre rimedio non soltanto con l’intervento disciplinare – che si riferisce a un momento patologico del sistema – ma, in primo luogo, con l’attivazione di concrete e tempestive iniziative di sorveglianza e coordinamento : iniziative che, come è noto, sono già state adottate con successo in occasione di vicende che hanno destato clamore e sconcerto.
Quando si parli di poteri dei capi degli uffici ci si imbatte nel timore, sempre risollevato da qualche parte, che possano riproporsi forme antiche di “gerarchizzazione”. Ma non è forse oggi prevalsa piuttosto la tendenza a una vera e propria “atomizzazione” nell’esercizio dell’azione penale? E quanto più ciascun pubblico ministero si esponga in iniziative di dubbia sostenibilità, ignorando o condizionando il ruolo che spetta al capo della Procura, tanto più la figura del Pubblico Ministero finisce per non poter reggere ad attacchi dall’esterno della magistratura.
Così come non può che risultare altamente dannoso per la figura del Pubblico Ministero qualunque comportamento impropriamente protagonistico o chiaramente strumentale ad altri fini, che già ebbi a stigmatizzare in questa sede oltre un anno fa. Peraltro, mi corre l’obbligo di notare come anche a questo proposito il CSM abbia negli ultimi tempi lodevolmente esercitato in modo più intenso l’azione disciplinare, per quanto ad alcune sue decisioni siano seguite reazioni inammissibili.
Infine, a distanza di oltre tre anni dall’entrata in vigore della nuova disciplina ordinamentale, mi sembra quanto mai opportuno che, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e con unità di intenti, il Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministro e i vertici degli uffici requirenti intensifichino momenti di interlocuzione con i capi delle Procure seguendo l’evolversi delle loro prassi e assecondando l’adozione di modelli che prevengano i contrasti, rispettino i principi costituzionali posti a base dell’esercizio dell’attività giudiziaria e agevolino la migliore allocazione delle risorse. Solo la effettiva cooperazione tra i soggetti a vario titolo responsabili della efficienza del sistema giustizia può consentire il superamento delle attuali difficoltà e il sereno, autonomo e indipendente svolgimento di una funzione posta all’esclusivo servizio del cittadino.
Sono convinto che a tal fine il CSM non farà mancare il suo insostituibile apporto.
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