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Tra vendite dirette e denunce

Il lato debole della strategia Coldiretti

Facciamo il punto sui problemi dei costi della filiera argo-alimentare e i comportamenti degli agricoltori

Di Stefano Ravaschio

Non è vero che chi conta poco non riesce a farsi sentire. La Coldiretti ce la fa benissimo, pur rappresentando solo una parte di un settore ormai marginale nell’economia italiana come l’agricoltura, che contribuisce solo per il 3% sul Pil nazionale. Ce la fa giocando sui sentimenti, con ricordi da sussidiario sulla visione bucolica ed ecologica del contadino che falcia i campi. Una figura ormai scomparsa da anni, almeno in Italia, dove invece furoreggia l’agricoltore piagnone, adesso in tournée anche su “Striscia la notizia” con l’ultimo show: quello della presunta “falsificazione” di prodotti caseari.

Qui bisogna fare delle distinzioni. Non si tratta della giusta protesta per utilizzo abusivo di marchi e pubblicità ingannevole, di Parmegiano Regio spacciato per Parmigiano Reggiano o di Granna Padano per Grana Padano. La denuncia della Coldiretti riguarda la presenza nei supermercati di mozzarelle industriali prodotte a norma di legge in Italia, ma con latte non italiano. A parte che anche il Camembert o il Gouda con il latte italiano non c’azzeccano e che quindi per la Coldiretti non dovrebbero aver diritto di residenza, pur essendo comunitari, nei nostri scaffali, ci sono anche simil Emmenthal fatti in Italia con latte italiano per i quali dovrebbe essere fatta analoga denuncia. Altrimenti si svela che la protesta non è per la tutela del consumatore, ma per le proprie tasche. Il tutto poi con una discreta faccia tosta: affermare il primato della qualità del latte italiano è ormai una presunzione da nobili decaduti di provincia.

La Coldiretti ha già dimenticato il latte italiano alla diossina, all’atrazina, agli antibiotici e alla aflatossine, ma si ricorda di propagandare la produzione nazionale quando in Cina spunta il latte alla melammina. La verità è che abbiamo troppi scheletri nella dispensa e in cantina per permetterci di fare la morale. Bisogna rendersi conto che anche per le materie prime dei prodotti alimentari non tutelati, come può essere un formaggio industriale, vale il principio che più della nazionalità è importante - e sarebbe già tanto - il rispetto delle norme sulla qualità e sulla sicurezza.
Il latte è ormai una “commodities” dove non importa la provenienza a parità di qualità organolettiche. Seguire la Coldiretti sulla pretesa di ipernazionalità in altri settori comporterebbe alla fine che anche per un vestito “made in Italy” anche il filato (se non addirittura il cotone) deve essere italiano: più che autarchia una missione impossibile.

Al pianto sul formaggio viene collegato poi quello sul prezzo del latte. Qui però la Coldiretti deve decidersi: si lamenta che il latte viene pagato alla stalla la miseria di 0,34 centesimi al litro per essere venduto nei negozi a 1,6 euro, ma poi si lamenta che i produttori di formaggi preferiscono utilizzare il latte estero perché costa meno. E quando si parla di estero si parla anche di Germania o Austria, dove i costi di produzione non sono poi così diversi dai nostri. Evidentemente è però diversa l’efficienza e la produttività tanto che possono vivere con prezzi inferiori a quelli che per la Coldiretti sono insufficienti per vivere.

C’è una chiara voglia di protezionismo e barriere a difesa di rendite di posizioni, anche se non può essere espressa in maniera così esplicita. Allora si è inventato il “chilometro zero” che in sé è una bella cosa, ma poi gratta gratta si rivela solo uno slogan, come i prodotti biologici venduti a caro prezzo perché non sono stati usati insetticidi in un campo vicino agli scarichi di un aeroporto.

Se i prodotti esotici, a partire dalle banane, costano meno di un prodotto locale di stagione venduto nei mercatini, evidentemente c’è qualcosa che non funziona. E a non funzionare potrebbero anche essere proprio questi mercatini di coltivatori, dove i prezzi sono spesso più alti, a parità di prodotto, di quelli che si trovano nei negozi. Ma il negozio ha maggiori costi per il locale e per la corretta conservazione dei prodotti per poter assicurare un servizio di vendita quotidiano rispetto a un commerciante improvvisato che altera la continuità del mercato con un’irruzione sporadica e saltuaria. Anche questa è una forma di concorrenza scorretta che la “povera agricoltura” non considera, facendosi forte di un’autoattribuzione di primario valore sociale del suo settore, che evidentemente nega alle altre attività economiche, passando sotto silenzio che di privilegi ne ha già tanti, dal prezzo scontato del gasolio agricolo ai contributi europei (che rappresentano ben il 40% del bilancio Ue).

Pubblicità scorretta a rigore sarebbe anche quella che la Coldiretti fa con i distributori alla spina che si stanno diffondendo, sempre per reagire allo “strapotere” dei distributori tradizionali. Non si possono mettere a confronto sui prezzi due prodotti differenti come il latte crudo (che dal famoso 0,34 euro alla stalla viene senza alcuno scandalo triplicato al canonico euro all’uscita dal distributore) con il latte pastorizzato, che comporta trasporti, lavorazione e confezione.

Curioso è che una volta il conflitto tra produttori e confezionatori non c’era perché erano sostanzialmente la stessa persona. Buona parte delle “centrali del latte” sono nate come consorzi o cooperative di produttori, ovvero agricoltori che però a un certo punto hanno preferito andare all’incasso, vendendo le loro quote. Poi è inutile piangere sul latte versato.

Pubblicato per gentile concessione del “La Rassegna – Settimanale Economico Fianziario”

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