REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno V n° 8 AGOSTO 2009 PRIMA PAGINA


RU486 e la Chiesa Cattolica
Siamo guelfi o ghibellini?
Ancora un’occasione di scontro tra il diritto dovere dello Stato di fornire ordine e sicurezza alla vita civile e la pretesa di imporre con leggi la morale cattolica
Di Il Nibbio


Nel numero scorso avevo fatto un paragone tra i writers, che, dagli anni ’60, hanno iniziato ad imbrattare i muri, come denunciava Primo Levi, e i writers di internet. Un discorso da legarsi in modo principale all’educazione e alla critica personale, ma anche un’evidente difficoltà di vivere nel reale da parte di troppi. Oggi mi trovo ad affrontare ancora l’argomento “internet” sollecitato da un intervento, apparentemente autorevole, e da uno, forse molto meno, di un giornalista. Interventi che ritengo assolutamente sbagliati, ma che rappresentano un modo di pensare di un certo numero di persone di una certa classe culturale.

Il tutto nasce da un’intervista rilasciata dal neo arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols, primate della Chiesa cattolica in Inghilterra al giornale inglese “Times”. In quest’intervista l’arcivescovo esprime duri giudizi sul mondo dei social network e spiega che, in quest’ambiente, i ragazzi vivono l'amicizia in modo transitorio e che spesso la quantità degli amici è ritenuta più importante della loro qualità. Cosa certamente vera, e non solo per gli adolescenti. Chi, come me , vive da anni il mondo di internet ha notato come sia esplosa la mania di “accalappiare amici” con l’evidente scopo di vantarsi del gran numero. Cosa non sempre piacevole per chi è “accalappiato”, ma, alla fine, senza alcun danno per nessuno e che non porta a evidenti problemi di valori sociali.

E fino a qui si può certamente concordare con l’affermazione di Nichols, che “ l'amicizia non è un bene di consumo ”; credo che sia vero che il concetto di “amicizia” dell’epoca infantile e adolescenziale oggi si prolunga anche nella maturità, dando un valore eccessivo a chi ti dice semplicemente belle parole e non conosce il sentimento profondo di un rapporto di vicinanza, in grado di soffrire e di donare senza chiedere. Ma questo credo sia improprio attribuirlo ai social network , credo invece che questi strumenti di comunicazione mettano in evidenza le difficoltà della nostra società, dove, a fronte di un allargamento del benessere e delle capacità di base della comunicazione (oggi l’analfabetismo è praticamente inesistente nei giovani), non solo non vi è stato un miglioramento della formazione etico - culturale, ma si è potuto registrare un significativo degrado. Responsabile di questo è in primo luogo la famiglia, che ha smesso di educare i figli limitandosi in molti casi solo ad allevarli, intendendo con questo il fornire loro tutto il necessario ed il superfluo: le cose migliori, quelle firmate, i giochi all’ultima moda, ma non preparandoli a essere consapevoli del mondo che li circonda.

Quello che non è certamente accettabile è che al social network sia attribuibile la colpa di un incremento dei suicidi giovanili, come afferma l’alto prelato inglese. Se si arriva al suicidio, è per una profonda difficoltà della propria psiche e questa responsabilità non può certo essere attribuita ad un mezzo di comunicazione, ma all’ambiente che circonda i ragazzi, che troppo spesso vuole ignorare i problemi.
La “solitudine” non è solo degli adolescenti, ma è generalizzata nel il nostro mondo. Credo che quasi tutti quelli che entrano nel mondo d’internet lo facciano per intraprendere relazioni, per provare le proprie capacità senza la necessità di scoprirsi, nascondendo le proprie difficoltà in vario modo.

Sono giunto a supporre che nel mondo di internet vi sia un gran numero di persone che cercano di vivere, in modo diverso da come sono nel mondo reale, osservando alcuni comportamenti diffusi:
  • la segretezza della realtà reale, spinta al paradosso, che porta al desiderio di tenere nettamente separata la propria vita reale da quella virtuale;
  • la diffusa abitudine di riportare cose scritte da altri, anziché scriverle direttamente quello che si pensa; credo che questo rappresenti il desiderio di “vivere” una vita, una cultura, che si desidera, ma che non si ritiene di essere in grado di esprimere
  • il dedicarsi, come cita anche il Vescovo di Westminster, alla collezione numerica degli amici, più che alla ricerca di interrelazioni adatte alle nostre esigenze
  • la ricerca di template, prodotti da altri, in grado di suscitare ammirazione, anziché ricercare di ottenerla attraverso la propria espressione.
Ma è negativo tutto questo e può portare al suicidio? Certamente no, se non vi sono “tare” preesistenti. La fragilità adolescenziale è nota da sempre e cosa fanno le famiglie e la chiesa stessa per aiutare i giovani? Ben poco, anzi spesso operano con i “divieti”, che non servono a nulla, perché da una parte creano ulteriore insicurezza, dall’altra spingono la sana curiosità, che deve esistere in un giovane, verso lidi pericolosi.

Sulla scia di questa discussione appare un articolo pubblicato da “Il Giornale”: “Internet La dittatura dei dilettanti allo sbaraglio” a firma di Geminello Alvi (http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=371424). Qui veramente credo che si tocchi il fondo dell’arroganza di chi si crede colto. L’autore si scaglia contro gli internauti con queste parole: “Costoro in effetti paiono possedere solo un talento per il chiacchiericcio, ovvero per lo sfogo di chi apre la bocca per dargli fiato - qualche passo dopo -“ Invece ora si riunisce ad altre miriadi di dilettanti, e coopera a impoverire la cultura, come mai sarebbe loro riuscito prima. Il digitare dei polpastrelli eccita il dialogo compulsivo su notizie scopiazzate. - e successivamente si legge - “E allora per quanto mestieri come il giornalista o l’insegnante possano dirsi in difficoltà, viene comunque da rimpiangerli.”.
Ma che bel presuntuoso!
Crede che solo la sua cultura sia valida?
Che solo il suo sapere sia valido?
Con quale diritto vuole impedire alla gente di comunicare a modo suo e a che titolo ciò?

Eclatante è la sua affermazione “Il conformismo con la globalizzazione è peggiorato: ci si limita al biasimo di internet, ma subito corretto dalle lodi. Si compiace la massa degli incolti con distinguo innocui, si biasimano i vizi erotici e il crimine; ma si loda la rivoluzione. E invece internet non è neutrale. Deve anzi dirsi uno dei motori più perniciosi della standardizzazione globalizzante”. Ma forse il grande giornalista non conosce che è solo da pochi decenni che tutti gli italiani sanno leggere e scrivere, non sa che la “cultura” non è quella che si trova scritta nei libri delle biblioteche, ma è l’esperienza di vita dell’uomo.

Ogni uomo ha quindi una sua cultura, che merita sempre il più ampio rispetto. Ogni uomo comunica con gli altri e così incrementa la sua conoscenza e la sua esperienza. Impedire questo vuol dire impedire lo sviluppo della cultura stessa, anche quella di rango più elevato, perché chi è più colto lo deve solo alla conoscenza sviluppata, anche attraverso le persone meno fornite. Voler ghettizzare le culture “inferiori” credo sia la forma di più grande razzismo e di incultura.
Il giornalista Geminello Alvi farebbe meglio a mettere alla gogna la profonda ignoranza di troppi giornalisti che, con estrema faciloneria, scrivono errori su errori e che comunicano così dalle autorevoli pagine dei giornali la loro ignoranza, anziché la cultura. Un esempio? Alcuni colleghi, hanno definito Vincent Nichols primate della Chiesa anglicana in Inghilterra, anziché della Chiesa cattolica.

Volutamente ho messo a fianco la critica alle dichiarazioni di Vincent Nichols alla critica alle parole di Geminello Alvi perché entrambi, a mio avviso mostrano un’incapacità di accettare il cambiamento e l’idea di vietare, scomunicare, impedire, anziché aiutare a superare i problemi.

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