REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N 8 |
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Anno V n° 9 SETTEMBRE 2009 - TERZA PAGINA |
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Il cielo poi…”. Certo che lo vedo, ma capirlo, e poi riportarlo sulla tela, è un’altra storia. Divido il mio lavoro tra lo studio padovano e quello di Hajòs in Ungheria. Sono sedici anni che faccio queste lunghe passeggiate solitarie nella pianura ungherese, nelle città, nella puszta, lungo il lago, nei campi, col sole, con la neve, quando c’è nebbia, un po’ come facevo da ragazzo per capire il paesaggio veneto.
Per capire il paesaggio ungherese devi avere dei ricordi che ti leghino a quella terra, devi conoscere l’alfabeto segreto di quel paesaggio per poterlo leggere e poi citarlo, altrimenti si comporta come con tutti – bello, disteso, maestoso – ma non ti fa vedere il suo blu o verde, quelli sinceri. Gli alberi a volte sono blu. Magari per cinque minuti, per uno strano gioco di luce lo sono davvero. Ma se non hai il ricordo di un pomeriggio passato con Kati Nèni, un’anziana pittrice ungherese in una piccola casa nella pianura, che ti dica con la gioia vera del condividere le cose che sono da sapere, forse non te n’accorgeresti mai. Se, guardando quel paesaggio, sbuca la sagoma di una casa bassa tagliata dalla luce gialla-bianca-ocra-azzurra , appunto, ungherese, se non sapessi che entrandoci sicuramente troverei qualcuno che custodisce geneticamente la grande cultura magiara, la interpreterei diversamente. Invece mi è capitato di vedere nella casupola da pastore la fotografia di un grande poeta magiaro. Alla domanda “come mai?”, la risposta era: perché sapeva dire meglio di me come mi sento quando ho veramente caldo… Mentre dipingo l’Ungheria ho caldo, freddo, cambio umore, e sono io. Dico sono io, perché ho sempre dipinto il mondo attorno a me.
Ho bisogno di sentire, prima di dipingere la neve, il suo rumore sordo sotto i piedi, di portarla attaccata alle scarpe in casa e dopo, vederla sciogliersi sul pavimento che diventa di un lucido diverso. Lo faccio istintivamente fin da bambino. Osservo il mondo attorno a me, lo metto nel cassetto di uno dei miei sensi e dopo lo ritrovo in un quadro. La terra ungherese, nella sua apparentemente immutata pianura, è in costante cambiamento anche decine di volte al giorno. Cambiano i colori, gli odori, le strutture. L’architettura del paesaggio magiaro è data dal cielo che domina quello stesso paesaggio come non ho visto in nessuna altra parte del mondo. Anche quando non lo guardi. Senza quel cielo, quelle nubi, quell’infinita gamma di sfumature, che si riescono a vedere in una sola giornata, i colori sottostanti del resto del paesaggio avrebbero meno senso pittoricamente. Senza quel peso di cielo, non ti accorgeresti di un fenomeno incredibile che mio figlio mi ha fatto notare un giorno d’estate dicendo: guarda, babbo, le erbe non osano a muoversi… Ho imparato da lui, in quel momento, cosa mi affascinava così tanto da anni e che volevo si sentisse sulla tela: davanti al paesaggio ungherese non ci si sente piccoli come davanti a un monte, non ci si sente soli come nel deserto, non ti ingoia come un canyon o una cascata . Non osi muoverti. Non per paura. È l’immobilità dei momenti felici.
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