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Leone d’Oro al Festival di Venezia "Lebanon" di Samuel Maoz Un’esperienza emotiva totale Di Concetta Bonini
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Yoav Donat ha conosciuto l’inferno terrificante e ripugnante del Libano barricato in un container buio e torrido, percosso violentemente e continuamente da spranghe di ferro, mentre il primo regista della sua carriera di attore gli urlava contro orribili pensieri di morte e sensi di colpa. Chiudendolo lì dentro, in una guerra in provetta, Samuel Maoz gli ha insegnato ad essere Shmulik. E questo Samuel Maoz ha voluto che il suo Lebanon, Leone d’Oro al Festival di Venezia atteso nelle sale il prossimo 23 ottobre, fosse anche per il pubblico: non un film, ma un’esperienza. Un’esperienza emotiva totale. Lo spettatore entrerà nell’umido buio di un carro armato, chiudendosi il coperchio pesante sopra la testa, e cigolerà verso l’imprevedibile. Inutile aspettare, cercare, il filo della narrazione, il senso, la logica. Perché la guerra non ha logica. E questo film è la guerra. E’ quella che il 6 giugno 1982 conoscono in Libano Assi, Hertzvel, Yigal, nella dimensione minima, nell’unità essenziale della guerra: il loro carro armato. Che non è solo una bara metallica, ma una macchina umana che sanguina costantemente. Ed è, appunto, quella di Shmulik, l’artigliere, il tiratore scelto, che ha sempre sparato solo alle botti di benzina e adesso, invece, deve imparare ad uccidere: deve smettere di consumarsi gli occhi dentro il mirino e premere finalmente il grilletto, lasciandosi dominare da un istinto alla sopravvivenza primordiale e privo di qualunque umanità. Shmulik non è altro che Maoz stesso. Ed è la ragione di questo film, totalmente autobiografico. Ventiquattro anni dopo la sua guerra, il regista libanese ha deciso di uscire dalla negazione di sé e di liberarsi finalmente dal trauma passivo dell’omicidio. Raccontando quelle immagini indistinte evocate dal passato, filmando l’anima di un soldato come se non fosse sua, ne è guarito. Dalla sua memoria emotiva nasce questa “esperienza globale”. La sua guerra è orrore autentico, sotto uno sguardo senza retorica e senza indulgenza. Uno sguardo che non sta – non può stare- in un campo lungo, ma solo nello spazio breve di un mirino. Angusto e soffocante, come la claustrofobia del carro. E allo stesso tempo ingigantito e sproporzionato, come il dolore della vita che mette a fuoco, rasa al suolo, ridotta polvere, lacrime timide e occhi vuoti, silenziosi, disperati. Alla pellicola manca solo l’odore acre di quel mondo sotterraneo unto, fradicio, sfatto. Ma attraverso ognuno di quei fotogrammi che sudano sangue, lo spettatore ne assorbe tutto il disagio, addirittura la nausea, e alla fine si sente lui stesso traumatizzato, incompatibile con la normalità della vita esterna, disorientato e sconfitto. Riemerge alla luce, come un carro armato perduto, in un campo di girasoli prostrati, sotto il cielo vuoto del Libano. pubblicato su www.doppioschermo.it Argomenti: #cinema , #film , #recensione Leggi tutti gli articoli di Concetta Bonini (n° articoli 51) il caricamento della pagina potrebbe impiegare tempo |
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