C’è che dice che siamo nella ripresa, ma c’è poco da credere a queste “sirene”. La caduta sembra essere rallentata, quasi azzerata. Ci sono segnali, piccoli in vero, che si possa dire che adesso arriverà la ripresa, ma sono segnali tutti da verificare e i motivi di preoccupazione permangono.
L’Istat ci fornisce una serie di statistiche (alcune sono riportate nella sezione “documenti”) nessuna dà il segno di una ripresa, solo l’indice della produzione industriale è da un segno positivo, ma è Agosto e, da quando mi occupo di economia (circa 40 anni!), mi hanno insegnato di non far caso ad agosto, mese che non fa testo.
D’altra parte il comunicato dell’Istat è chiaro e dice testualmente “
Nel mese di agosto 2009, sulla base degli elementi finora disponibili, l'indice della produzione industriale destagionalizzato, con base 2005=100, ha segnato un aumento del 7 per cento rispetto a luglio 2009; la variazione congiunturale della media degli ultimi tre mesi rispetto a quella dei tre mesi immediatamente precedenti è pari a più 4,4 per cento.”, ma, nel capoverso successivo del comunicato, smentisce ogni possibile illusione, che incompetenti, o politici interessati, potrebbero essersi fatta leggendo il primo e afferma “
L'indice della produzione corretto per gli effetti di calendario ha registrato ad agosto una diminuzione tendenziale del 18,3 per cento.... Oltre il 18% in negativo, altro che ripresa!
Tutti concordano che la caduta dell’economia è in un momento di stasi, ma questa non è ripresa: potrebbe essere seguita da una ripresa o da un’ulteriore scivolata.
A favore della ripresa c’è da dire che qualche paese, come la Cina, ha ricominciato a crescere. Ma molti sono i motivi che devono indurre alla cautela, se non a un pessimismo.
Uno di questi è sotto gli occhi di tutti ed è misurabile anche da chi non s’intende di indicatori economici: la disoccupazione è in aumento e sono previsti ulteriori aumenti. Tra poco per molti terminerà la Cassa integrazione: sono trascorsi i fatidici 10 mesi e non saranno reintegrati nel posto di lavoro. Poi non si è ancora verificata l’attesa ondata dei fallimenti, indotta dalle mancate vendite, dai mancati incassi e dal mancato sostegno delle banche.
I consumi sono sempre in caloi e degli investimenti si sa poco, ma certamente le imprese in difficoltà non investono se non hanno stimoli concreti. Ricordiamoci che se non partono i consumi delle famiglie, che sono fermi, è difficile che l’ottimismo da solo faccia il miracolo di rimettere in moto un meccanismo complesso bloccato; al massimo si può pensare che si stabilizzerà al livello toccato, che è molto più basso di quello del 2007.
Fin dall’anno scorso avevo detto che per uscire dalla crisi senza danni permanenti e profondi si doveva innovare profondamente il sistema (Spazio di Magazine - novembre 2008 “La crisi mondiale: cosa fare adesso? ); in particolare dicevo: “Nel nostro sistema si devono per prima cosa superare le inefficienze.
Le inefficienze le avevo elencate dettagliatamente nell’articolo del mese precedente. “La crisi finanziaria mondiale va da sola o fa parte di una crisi più ampia?”:
- Una pubblica amministrazione che consuma risorse pubbliche e private senza produrre servizi adeguati, riducendo la capacità dello Stato a fornire interventi efficienti.
Gli investimenti pubblici sono sotto il minimo di sopravvivenza e, in parte a causa dell’ incapacità della Pubblica Amministrazione, sono inefficienti. Gli investimenti hanno peso solo se vengono completati in tempi giusti e con una spesa non gonfiata; quando i tempi diventano biblici il “moltiplicatore” del reddito tende a zero.
Tra gli “investimenti” dobbiamo conteggiare anche quelli per la ricerca, che sono a livello infimo.
Purtroppo malgrado la minima quantità di soldi messi a disposizione, una gran parte di questi sono sprecati, poiché non esiste nelle Università la distinzione delle carriere tra Ricercatori e Docenti. In genere i professori Ordinari sono docenti che fanno finta di fare ricerca.
- La stragrande maggioranza delle imprese è formata da micro-imprese, fino a 5 addetti, o da imprese fino a 15 addetti. Sono troppo poche le cosiddette PMI, aziende da 50 a 200 addetti. Le PMI sono in genere imprese con maggiore capacità di innovazione, perché hanno una capacità finanziaria sufficiente, dimensioni in grado di poter dedicare risorse umane all' innovazione e, a differenza delle imprese più grosse, sono molto efficienti e aderenti alle esigenze del mercato.
- Il forte squilibrio sociale, culturale ed economico tra Nord e Sud, che non migliora e tende a peggiorare.
- L’insegnamento è trascurato e, specialmente nei gradi più alti, assolutamente staccato dalle esigenze reali.
- La scuola non prepara più; troppe persone, malgrado il possesso di titoli di studio, non sono in grado di occupare le posizioni richieste dalle imprese e si arrabattano in lavori dequalificati e poco produttivi per l’economia reale: un esempio per tutti gli operatori dei call-center di marketing telefonico.
E cosa è stato fatto per ovviare a questi difetti dell’economia italiana?
Praticamente nulla!
La burocrazia resta il nodo principale di tutto: consuma sempre più risorse e, se produce qualcosa, è solo per la volontà di qualche addetto, che prende iniziative, magari correndo anche dei rischi. Ma nessuno è capace di sciogliere i nodi, forse perché troppo legati alle poltrone, agli incarichi di consulenza, agli appalti di servizi da affidare agli “amici”.
La scuola, riformata ad ogni cambio di ministro, non cambia, resta inefficiente e costosa: troppe persone, troppe materie, troppe ore, poca preparazione del personale docente (N.d.R. lasciamo perdere le solite eccezioni!), poche infrastrutture didattiche, poche verifiche vere, così si avvicina ad essere la peggiore dei paesi industrializzati e l’ultima riforma, della mia omonima ministra, non ha cambiato nulla, ha solo creato confusione e discussioni. Non parliamo dell’Università, che è sempre in mano ai “baroni”. Questo problema, se è cambiato, lo è sicuramente in peggio.
Il sistema infrastrutturale, che è il sistema con cui l’economia riesce a scambiare i beni ed approvvigionarsi delle materie prime, è disastroso: mai nulla viene fatto per migliorare il sistema, solo interventi spot, magari come il Ponte di Messina, senza alcun senso sistemico; infatti questo interventi “faraonici”, come li ha chiamati Napoletano, restano perfettamente scollegati dal resto delle infrastrutture e non producono i loro effetti in tempi brevi.
La capacità di affrontare questi argomenti è ben rappresentata dal Capo del Governo, che qualche giorno fa ha scoperto che il porto di Genova non funziona perché non è collegato all’Europa; già ma questo me l’hanno insegnato all’università in “Economia dei trasporti” circa mezzo secolo fa; cosa occorrerebbe per farlo funzionare?
Ferrovie, valichi nuovi e, in seconda battuta, autostrade efficienti, non invase dai mezzi dei pendolari perché usate come circonvallazioni delle città. Questo non vale solo per Genova, ma anche per Gioia Tauro, Taranto, Brindisi, Ancona, Livorno, La Spezia, Trieste, ecc… e sono le stesse richieste che fanno gli industriali. Allora cosa si propone? Il famigerato ponte di Messina appunto.
Altra nota dolente è il sistema distributivo: troppi passaggi dalla produzione al venditore finale portano ad una incapacità di tenere i prezzi adeguati ai contenuti e rendono gli stipendi inadeguati al costo della vita. La vicenda dell’inflazione “sommersa”, verificatasi all’introduzione dell’euro, ne è un preciso esempio. Ma nulla è stato fatto per aiutare il venditore finale a collegarsi direttamente al produttore o al massimo ad un distributore, quindi con solo uno o due passaggi, e con minori ricarichi. Oggi la Coldiretti propone una filiera commerciale, da loro gestita, che vada dal coltivatore alla vendita: pensare che su questo punto, all’inizio degli anni ’70, ho litigato col Prof Ricci in sede di discussione di tesi di laurea:io sostenevo questa necessità e lui diceva che non serviva!
Si è detto: per uscire bene dalla crisi, si deve cambiare il sistema economico, ma, se nulla si fa, usciremo sicuramente, dalla crisi, ma con le ossa rotte e con un’economia che non sarà più in grado di competere.
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Giovanni Gelmini (n° articoli 506)
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