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Gli esperti sotto accusa Se la scienza economica scopre i suoi limiti Teorie economiche troppo “teoriche”, non legate all’osservazione della realtà, hanno mostrato la incapacità ad essere tradotte in azioni di governo. Mancano gli economisti “non accademici”, che lavorano essenzialmente sui fatti con approcci non teorici Di Matteo Ferrazzi
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Economisti sul banco degli imputati e le teorie economiche “ortodosse” sotto accusa: anche questo è uno dei corollari della crisi. Tutto ciò avrà però delle ripercussioni che vengono al momento sensibilmente sottostimate. Si, perché le previsioni della teoria economica prevalente non fanno che influenzare le future decisioni a livello politico: vi sarà forse più supervisione, meno mercato e più Stato? E che impatto avrà tutto ciò sul tessuto produttivo e sull'imprenditorialità? E sul welfare state? Che la scienza economica avesse bisogno di qualche ripensamento è noto. I principali capi di imputazione (li cito prendendo spunto dal libro di Roberto Petrini, Processo agli economisti, edito da Chiarelettere) hanno - ahimè - un qualche fondo di verità: gli economisti non hanno previsto la crisi, né avuto sentore che vi potessero essere dei problemi; hanno perso il contatto con la realtà, anche a causa dell’overdose di matematica utilizzata nei loro modelli; sono incapaci di comunicare. È difficile crederci, ma fino a non molto tempo fa, al contrario, gli economisti si congratulavano con se stessi per il successo delle loro teorie. Vi era una convergenza senza precedenti su numerosi aspetti. Questo ha portato a credere che anche i decisori pubblici agissero nella direzione opportuna, grazie a teorie "giuste" e a economisti altrettanto validi come a consiglieri dei governanti di turno. Ma come hanno potuto gli economisti prendere un abbaglio così rilevante? Ha lanciato il dibattito in maniera più autorevole degli altri Paul Krugman, sulle colonne del New York Times: la cecità nell'ammettere la possibilità di fallimenti così macroscopici nell'economia di mercato è stata la causa principale della mancata comprensione della crisi. Per le teorie convenzionali non erano ammissibili "bolle" o fallimenti del mercato; gli individui sono razionali e i mercati efficienti: i prezzi delle attività sono quindi sempre necessariamente in equilibrio, date le informazioni disponibili in un certo momento. Limitazioni alla razionalità umana non venivano prese in considerazione. Per dirla alla Larry Summers (consigliere della Casa Bianca, già ministro dell'era Clinton e rettore di Harvard), gli economisti hanno dimenticato che possono esistere al mondo anche degli idioti (individui che non agiscono in base alla perfetta razionalità ipotizzata dai principali modelli macro e microeconomici); o per lo meno - aggiungiamo noi - individui che non agiscono in base al solo stimolo economico e alla necessità di "massimizzare la propria utilità" (anzi, a pensarci bene, gran parte delle attività umane avvengono su stimoli affettivi, sono basate su attività non retribuite, come ad esempio la cura dei figli e degli anziani). A questi elementi dobbiamo aggiungere l'abuso (direttamente proporzionale al prestigio dell'università in questione, specialmente nei corsi "post-graduate ") di complicatissimi modelli quantitativi che utilizzano sofisticate tecniche statistiche, sovente mutuati da altre scienze, modelli che hanno distolto da analisi storiche, sociologiche e politiche. Secondo Krugman, gli economisti hanno scambiato l'eleganza dei modelli matematici per la verità. Tale eleganza ha fruttato una sfilza di premi Nobel. Ora l'edificio intellettuale che reggeva una parte importante dell'economia "è collassato ", come ha sottolineato Greenspan. Tratteggiati a volte come il mago Otelma (da Tremonti) a volte come una casta (oltre ai politici, ai magistrati, ai sindacalisti, ai giornalisti, categorie su cui si è scatenata una vasta "editoria delle caste" nel corso degli ultimi anni), gli economisti sono ora privi della luce che li ha guidati in precedenza: qualcosa di simile accadde con la crisi degli anni '30 (la Teoria Generale di Keyenes - non è un caso - è del 1936). L'economia è una scienza sociale relativamente giovane: i cosiddetti "classici ", come Adam Smith, David Ricardo e perfino Marx, hanno sviluppato le loro teorie con l'incedere della rivoluzione industriale. Del funzionamento del sistema economico e della reazione degli individui al mutare delle variabili economiche si sa ancora troppo poco, molto meno di quanto i fisici conoscano l'universo, per fare un esempio. Aggiungiamo due elementi: intanto una parte dell'economia è stata subordinata alla finanza, e questo ne ha accentuato alcuni aspetti negativi; poi si è creata una frattura tra gli economisti accademici e quelli non accademici, specialmente in Italia. J primi sono troppo spesso costretti a rimanere immersi nell'eleganza dei modelli di cui diceva Krugman. I secondi, invece, se ne fanno ben poco di modelli quantitativi, poco adatti a descrivere la realtà con cui devono confrontarsi. Gli economisti non accademici, che in passato avevano svolto il ruolo di fucina di classe dirigente e di alta borghesia (sfornando tra l'altro più di un ministro), sono ormai delle mosche bianche nel nostro paese. Essi sono poche decine, sparsi in poco più di una quindicina di mini-centri studi, di cui solo quattro o cinque di respiro vagamente internazionale: poche decine (il mercato del lavoro non ne assorbe se non in minima parte), appunto, a fronte di quasi 100 mila commercialisti sparsi per l'Italia, ad esempio. In sintesi, l'economia non è e non sarà mai una scienza esatta: la crisi ha contribuito a ricordarcelo. Per lo meno, da ora in poi chiunque professa la scienza economica, si ricorderà dei suoi limiti. Pubblicato per gentile concessione del “La Rassegna – Settimanale Economico Fianziario” L’autore può essere conttato vie e-mail: matteo.ferrazzi@fastwebnet.it Argomenti: #economia Leggi tutti gli articoli di Matteo Ferrazzi (n° articoli 5) |
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