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Il metallo: tecnologia, bellezza e sentimento nelle antiche culture peruviane

La Curatrice della mostra “INCA. Origine e misteri delle civiltà dell’oro” parla del legame tra la forma del manufatto, il suono che esso emette, il fulgore che emana con il movimento e le credenze religiose, mistiche e terrene di quel popolo

Di Paloma Carcedo de Mufarech


 

Ornamento per la fronte in oro, Cultura Moche (100-750 d.C.) Lima, Museo Arqueológico Rafael Larco Herrera

Il significato reale degli oggetti che ci provengono dalle antiche culture precolombiane, quali quelli che sono esposti in questa mostra, sarà elusivo se non compiamo l’esercizio di chiudere gli occhi e trasportare la nostra mente e i nostri sensi in un mondo aborigeno in cui a dettare i modelli di credenze religiose, mistiche e terrene saranno suoni, colori, odori, sensazioni, proprietà, difetti o qualità del mondo animale, vegetale o minerale. Tali princìpi si manifesteranno in modi diversi, e soprattutto nel metallo, filo conduttore della mostra. Le caratteristiche cromatiche, la forma del manufatto, il suono che esso emette, il lampo o il fulgore che emana con il movimento, oltre che le scene sbalzate o incise, ci consegnano a mondi cosmici popolati da antenati e divinità soprannaturali che, mediante il rito, intrattengono relazioni con il mondo terreno.

Le culture native americane osservavano, rispettavano e veneravano la natura e il mondo circostante. Credenze, riti, miti e attività quotidiane erano governati da invisibili forze che regolavano l’ordine dell’universo e degli uomini. Non era immaginabile un mondo terreno o spirituale in cui non si rendesse omaggio alle forze che offrivano il sostentamento quotidiano, guarivano dalle malattie o proteggevano dai nemici. Il mondo circostante era interamente connesso con la natura, a cui si tributava rispetto e si rivolgevano suppliche; a quella stessa natura le culture aborigene si rivolsero per plasmare i suoi attributi negli oggetti che, con eccezionale abilità, esse seppero mutare in opere d’arte.

 
Corona in rame dorato, Cultura Moche (100-750 d.C.) Trujillo, Museo de Sitio Cao - Fundación Wiese
Trasformare una materia prima come i metalli preziosi in un oggetto suntuario è stata un’opera ardua presso tutte le antiche culture, perché tale azione implica non solo grande competenza tecnica, ma anche profonda comprensione dei modelli cosmovisionali, dell’ideologia e delle credenze religiose del gruppo che la realizza. Per tali ragioni l’oggetto suntuario, in questo caso di metallo, deve essere fruito non solo per il suo valore estetico, ma anche in quanto portatore di un’ideologia ancestrale all’interno della quale esso assolse un ruolo di mediazione tra il divino e l’umano (Carcedo, 2007).

 

Fuso o spatola per la calce d'oro e turchese (particolare) Stile Frías, Intermedio Antico (200-600 d.C.) Lima, Museos "Oro del Perú"- "Armas del Mundo" ? Fundación Miguel Mujica Gallo

Forse proprio per la sua difficoltà di ottenimento e di trasformazione, il metallo fu il materiale maggiormente utilizzato, in quanto tributo alle divinità, sotto le forme tradizionali di “pagamento” rituale (pago) e/o di offerte in tutte le fasi della produzione metallurgica: nelle attività estrattive con riti di pago alla terra, nei centri di lavorazione dei metalli e nei laboratori di oreficeria come offerte, e già come oggetti finiti nelle tombe, ad accompagnare i defunti in quanto entrati a far parte del mondo degli antenati.
I minerali e i metalli appartenevano al “mondo di sotto”, o Ukhu Pacha. I nativi adoravano la terra fertile, che denominavano Pachamama o Macpacha, divinità che a seguito dell’evangelizzazione venne associata alla Vergine Maria. Inoltre essi veneravano e tributavano culti alle miniere, che chiamavano copa, ai metalli, che erano denominati mama, e ai minerali da cui li ricavavano, che indicavano con il termine corpa in quanto erano strappati alla Madre Terra.
È oggi comune il rinvenimento nelle miniere di resti di pagos alla Madre Terra sotto forma di foglie di coca, chicca (birra di mais fermentato) e feti di lama. I riti che si celebravano in onore della Terra erano strettamente relazionati a quelli tributati alla Luna, giacché almeno nel periodo Inca entrambe erano concettualizzate come esseri femminili e associate alla fertilità e ai cicli lunari che regolavano le attività agricole.

La genialità degli antichi orafi permise loro di trasformare quanto offerto dalla Pachamama - una potenza che, sotto le sembianze femminili, si preoccupava di garantire la costante disponibilità dei mezzi di sussistenza e la fertilità dei campi - in manufatti di grande bellezza, dove l’oro e l’argento si mescolavano a pietre preziose e semipreziose policrome, a piume di colori accesi e a tessuti dai mille motivi e sfumature, plasmando un universo di codici simbolici, impregnato della sensibilità di culture presso le quali il colore, il suono, il movimento, il fulgore e la brillantezza (qualità che sono tutte caratteristiche degli oggetti metallici delle Ande Centrali) rimandavano ai quattro elementi che muovevano l’Universo: l’aria e il suo opposto, vale a dire l’acqua (suono, movimento e libagioni); il fuoco e il suo opposto, cioè la terra (brillantezza, scintillio e colore).
 
Coppa-sonaglio d'argento Cultura Chimú (1200-1470 d.C.), Lima, Museo Nacional de Arqueología, Antropología e Historia del Perú
Le qualità di questi opposti permeavano interamente i modelli cosmovisionali, ogni cosa essendo carica di un dualismo rappresentato attraverso l’antitesi di concetti complementari. Ad esempio, due raggruppamenti del regno animale esemplificano chiaramente il concetto dei contrari: gli uccelli, che volano in cielo, sono a contatto con la luce, hanno il sangue caldo, cantano melodiosamente e spesso hanno piume variopinte (rappresenterebbero l’aria); e al loro opposto le rane o i rospi, anfibi dal sangue freddo che cercano l’ombra e hanno una voce monotona (rappresenterebbero l’acqua).

Raffigurazioni di entrambi sono ricorrenti nell’oreficeria Sicán, costituendo un tema che sarebbe necessario studiare più approfonditamente.

Il manufatto di metallo doveva dunque recare implicitamente il variegato e maestoso universo della sua cosmovisione, al medesimo tempo senza che il piacere provocato dalla sua fruizione visiva venisse meno. In tal modo vennero creati oggetti “multisensoriali” che, con il movimento, evocavano, il canto degli uccelli, il rumore del mare, il gocciolio della pioggia o il ruggito del giaguaro.
Lo scintillio e la lucentezza, che diffondeva un manufatto d’oro, dovevano ricordare all’uomo che lo guardava l’esistenza di un dio Sole che dava la vita, faceva crescere e germogliare i semi e, in unione con una Luna sua sposa e sorella, reggeva e regolava i cicli del calendario agricolo. Il colore argenteo evocava sia la dea Luna che il mare o la divinità del mare, la Mama Cocha, madre di tutte le acque, che fossero laghi, lagune, fiumi o sorgenti; questo mare che offriva nutrimento e vita e che, come il Sole, qualora i suoi ordini non fossero stati rispettati, avrebbe anche potuto distruggere o devastare.

Nella cosmogonia Inca l’Inti, o il Sole, era la divinità più importante del pantheon, associata con l’oro che era “il sudore del Sole”.
La Mama Quilla, o la Luna, sua sorella e sposa, era invece relazionata all’argento, vale a dire alle “lacrime della Luna”. Il sovrano (denominato “Inca”) era abbigliato d’oro, mentre la coya, sua sposa, recava ornamenti d’argento.
Stando alle testimonianze raccolte nelle cronache spagnole, il Sole - e conseguentemente l’oro - era connesso con il lato destro, con gli uomini, la mascolinità e i fenomeni naturali; la Luna - e conseguentemente l’argento - con il lato sinistro, con la donna, la femminilità e la fecondità.

 
     

    Testa di felino in rame dorato e spondylus, Cultura Moche (100-750 d.C.) Lambayeque, Museo Tumbas Reales de Sipán

Anche i gruppi mesoamericani ritenevano l’oro e l’argento rappresentazioni divine del Sole e della Luna: in lingua Náhuatl l’oro era associato con la divinità solare e il termine “Luna”, “divini escrementi bianchi”, con l’argento. Nonostante gli Inca ne avessero imposto il culto, presso tutte le culture costiere il Sole fu oggetto di una venerazione minore rispetto a quella tributata alla Luna. Al riguardo Antonio de la Calancha riferisce:

    “Gli indios di Pacasmayo e delle altre valli delle pianure costiere adoravano come somma divinità, superiore a Dio, la Luna, in quanto essa governa gli elementi, produce il nutrimento e provoca le tempeste del mare, i lampi e i tuoni. In una huaca vi era il suo tempio, che gli indigeni chiamavano Sian, parola che nella lingua delle yungas vuol dire “casa della Luna”; ritenevano questo astro più potente del Sole, perché quest’ultimo la notte non era visibile, mentre la Luna si lasciava vedere di notte e di giorno [...]”.



Il rame, dal colore rosso come il sangue dei vinti, era indispensabile non solo nelle leghe d’oro e argento, cui conferiva durezza, ma anche per la sua proprietà di poter offrire, secondo la percentuale aggiuntavi, un’ampia gamma di colori di estrema importanza per il complesso simbolico nativo.
Secondo Reichel-Dolmatoff (1990) presso alcuni gruppi etnici della Colombia i colori ramati implicano una certa idea di pericolo, di malattia.
Per tali ragioni il metallo possiede un codice e specifici significati, alcuni percettibili e altri ancora indecifrabili. Esso è simbolo di potere terreno, in quanto il suo impiego e il suo colore definiscono classi sociali, religiose e politiche; accompagna i soldati sul campo di battaglia, ed è inoltre di ausilio in quanto strumento nelle officine artigianali, nelle miniere o nelle attività edilizie, contenendo però anche attributi legati a poteri magici e sciamanici, che vengono generati già all’atto della sua trasformazione in un forno per la fusione, perdurando fino alla sua sepoltura come corredo degli alti dignitari nel loro viaggio verso l’Inframondo.

 
Guanti d'oro (particolare) Cultura Sicán (750-1375 d.C.) Lima, Museos "Oro del Perú"- "Armas del Mundo" ? Fundación Miguel Mujica Gallo
Studi etnografici, condotti presso varie comunità indigene della Colombia e di altre aree del continente americano, hanno consentito di rilevare che per queste società la qualità di “luce” o “fulgore” che emana dagli oggetti, siano essi manufatti metallici, pietre, conchiglie, piume o tessuti, è un elemento primordiale che relaziona gli individui con il mondo soprannaturale e con le forze cosmiche. Per tale ragione non deve stupire il fascino che in essi suscitava l’oro, caratterizzato da riflessi quasi accecanti, se colpito da un raggio di sole e dalla sua incorruttibilità, e protagonista di innumerevoli miti cosmogonici.
La cosmovisione e la mitologia di queste società e i loro distinti sistemi di credenze sociali e rituali pongono in relazione le proprietà simboliche dell’oro, delle sue leghe e del processo di trasformazione (fusione, leghe e stampo) con schemi e modelli di vita umana e con il potere degli sciamani.
I gruppi nativi del continente americano comprendevano il mondo a partire da un approccio “multisensoriale” in cui i processi di “germinazione” o formazione, estrazione, fusione e trasformazione del metallo, oltre che le sue qualità cromatiche, olfattive, acustiche e visive, costituivano processi comparabili con quelli del ciclo della vita umana, animale o vegetale. In altri termini, essi trassero concetti e proprietà del mondo naturale e la trasposero nella cultura materiale, concettualizzando il metallo come entità vivente, con i medesimi cicli vitali, in grado di generarsi e riprodursi all’interno della terra attraverso la mediazione della Pachamama.
In tal modo i metalli sarebbero stati, secondo la definizione di Falchetti, “embrioni” o “semi”, e il signore dei metalli e della metallurgia un essere associato alle origini delle sementi; nel caso andino, la Pachamama. Come i mortali, così anche il metallo “si ammala” (ossidazione) e “muore” (perde lucentezza), ma come l’uomo morendo giunge in un “mondo altro” in cui dimorano gli antenati, così che esso può trasformarsi.

 

Ornamento per la fronte in oro, Cultura Moche (100-750 d.C.) Lima, Museo Arqueológico Rafael Larco Herrera

Secondo questa visione, il metallo “fa germogliare” o “feconda” la terra, nasce e viene estratto dalle miniere, si sviluppa e si trasforma in oggetti, si ammala con l’ossidazione, muore quando perde colore e lucentezza e rinasce tornando alla terra nelle sepolture convertendosi in minerale. I modelli cosmovisionali indigeni pensarono il metallo come un essere vivente che si trasforma mediante i diversi processi tecnologici e metallurgici della sua produzione. Presso ogni società la vita, la morte, la malattia, i fenomeni naturali o le forze soprannaturali sono interpretati attraverso i miti e inscenati nei rituali diretti da sacerdoti-sciamani o alti dignitari, i quali a loro volta si pongono in relazione con le forze soprannaturali o con altri mondi extraumani che regolano il mondo terreno.

Più che ostentazione di ricchezza come al modo europeo, tra i gruppi indigeni del continente americano dal Messico fino al Perù l’impiego del metallo sembra avere avuto connotazioni simboliche; esso non era un bene che servisse per comprare o vendere prodotti, secondo le modalità previste dalle strutture economiche del Vecchio Mondo. Il cronista meticcio Garcilaso de la Vega riporta al riguardo:

    “[...] non vendevano né compravano nulla con l’oro o con l’argento, né con esso pagavano gli uomini che andavano in guerra [...] e dunque lo possedevano come cosa superflua, perché esso non serviva né per mangiare né per comprare da mangiare. Lo apprezzavano esclusivamente per la sua bellezza e lucentezza, e lo utilizzavano per gli ornamenti e le suppellettili delle residenze reali, dei templi del Sole e della Casa delle Vergini [...]”.

Il metallo non era un bene indispensabile neppure nella fabbricazione e nella tecnologia delle armi, come invece accadde nel Vecchio Mondo, nonostante con esso si realizzassero alcune armi quali clave, mazze, bastoni e asce: “[...] lance e alabarde e mazze e asce da guerra, d’argento e di rame e alcune d’oro, con fionde e lance di palma dalle punte indurite per esposizione al fuoco” (Zárate, Libro I, cap. XIIII, p. 58).

 
Collana in rame dorato Cultura Moche (100-750 d.C.) Trujillo, Museo de Sitio Cao - Fundación Wiese
In questo senso il metallo era poco utile, in quanto nel mondo andino il concetto di guerra si dibatteva tra quelli di rito e di conquista territoriale. Le antiche culture andine preferirono utilizzare altri materiali più adatti alle loro strategie militari, quali i tessuti, il legno e la pietra. La maggioranza delle armi da offesa, come clave, mazze o frecce, era realizzava in tessuto, pietre e legni duri, e quelle da difesa, quali scudi, caschi e pettorali, con tessuti di cotone imbottito, il metallo rivestendovi solo in rari casi un ruolo predominanti. Non erano fabbricati spade, daghe o coltelli, né armature al modo europeo. Citiamo nuovamente Inca Garcilaso de la Vega in merito alle armi:

    “[...] dovevano conoscere il modo per realizzare da soli tutte le armi da offesa di cui necessitassero in guerra, almeno le più comuni e quelle che non abbisognavano della fucina del fabbro, come arco e frecce, lance (che potrebbero essere definite “giavellotti di canna” in quanto vengono scagliate mediante propulsore di legno o corde), aste con la punta acuminata in luogo del puntale di ferro, fionde di canapa (o sparto), e, al bisogno, raccoglievano e utilizzavano qualsiasi materiale”.



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